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 2022  febbraio 26 Sabato calendario

Intervista alla direttrice d’orchestra Speranza Scappucci

Dopo il debutto nei più importanti teatri lirici del mondo e, da ultimo, lo scorso gennaio, alla Scala di Milano, Speranza Scappucci, 48 anni, fa la sua prima apparizione anche a Berlino, alla Staatsoper, con L’Elisir d’Amore di Donizetti sul podio della Staatskapelle, l’orchestra fuoriclasse di Daniel Barenboim. Da giorni sta provando e la prima è questa sera, seguiranno quattro recite fino al 12 marzo. La carriera dell’artista romana, che prima dell’esordio sul podio nel 2013, ha lavorato dieci anni come maestro collaboratore a Vienna, Salisburgo, Roma e New York, è partita, e adesso prosegue, a razzo. Passione e talento gli ingredienti del suo successo. A luglio al Convent Garden di Londra con Attila (Abdrazakov e Keanliside nel cast), a novembre al Met di New York con Rigoletto. Da cinque anni è direttrice musicale all’Opera di Liegi. Il contratto scade a giugno ma non vuole rinnovarlo, ha deciso di prendersi una pausa da freelance. La Staatskapelle di Daniel Barenboim è straordinaria ed è «un grande onore lavorare con una delle migliori orchestre del mondo», dice. In cima ai sogni: «Fare Otello, Falstaff di Verdi, Dame Pique di Ciaikovski, Idomeneo di Mozart, e magari Lohengrin di Wagner. 
Gli eventi di queste ore portano in Ucraina: quale è la sua reazione e del cast alle prove?
«Siamo una grande famiglia internazionale, ci sono artisti russi e ucraini, siamo per la pace, non per la guerra. Alle prove eravamo tutti molto rattristati ed è stato molto difficile provare un’opera buffa come L’Elisir. Personalmente ritengo che l’aggressione di un paese sovrano come l’Ucraina sia inaccettabile. È semplicemente assurdo quello che sta succedendo da quelle parti». 
Tornando a lei, come è nata l’ambizione del podio? 
«Da maestro collaboratore, due gli sbocchi: o resti lì, o prendi in mano la bacchetta per metterti alla prova e realizzare la tua interpretazione di una partitura. Ho approfondito lo studio per un paio di anni: lettura della partitura, armonia, orchestrazione; ho seguito alla Juilliard School, dove avevo già studiato, corsi di composizione, studio della partitura e ho preso lezioni private di tecnica». 
Quanto è difficile avviarsi alla carriera di direttore d’orchestra solo con le proprie forze? 
«Avendo lavorato dieci anni come maestro collaboratore, ho avuto la fortuna di conoscere tanti importanti direttori d’orchestra. Per un paio di anni le due attività si sono accavallate, poi la direzione ha naturalmente preso il sopravvento». 
Il suo approccio con l’orchestra e il suo metodo con i cantanti quando prepara un’opera qual è? 
«Ogni orchestra ha un suo suono riconoscibile, poi interviene l’interazione con il direttore. 
Alla Scala con I Capuleti e i Montecchi di Bellini, un’orchestra di livello mondiale come quella, già alla prima prova ha reagito subito al senso di teatralità. Lo stesso al debutto a Vienna con La Cenerentola di Rossini, l’orchestra ha reagito subito alle indicazioni. Con i cantanti serve flessibilità, capire la respirazione, le voci. Il metodo è costruire dal basso ogni elemento dell’opera, parola, musica, respirazione, fraseggio. Prima da sola con i cantanti, poi con l’orchestra spiegando cosa realmente deve fare il cantante».
Ha fatto repertorio sinfonico ma soprattutto opera e opera italiana: cosa ama di più? 
«Amo tutta la musica ma soprattutto il repertorio romantico. Amo Puccini, ho già diretto cinque opere su dieci. Certo anche Verdi, Mozart, ma Puccini mi emoziona, c’è passione nella sua melodia, riusciva a mettere tutto quello che voleva nella partitura. Il rischio di sdolcinature c’è solo se si disattendono le sue indicazioni. La sua scrittura musicale affascina anche perché è estremamente nuova: a volte mi commuovo mentre dirigo ad esempio Butterfly, forse è in gioco anche un’identificazione con i personaggi femminili». 
Si è mai sentita, da donna, sul podio figlia di un dio minore? «No perché già avevano fatto da battistrada colleghe come Simone Young, Julia Jones, Marin Alsop e ora, specie nel sinfonico, ci sono tante brave colleghe. Dobbiamo crescere ancora di più e un domani le ragazze che si stanno formando oggi avranno sempre più possibilità». 
Le è mai accaduto che non le venisse fatta la domanda sul genere e se venire chiamata direttore o direttrice? 
«Quasi mai. Ma qualche eccezione c’è stata. Penso sia inevitabile: la società si evolve e il linguaggio si adegua. Certe professioni in passato erano appannaggio solo di uomini, è comprensibile se ne parli, ma spero che presto non sia più necessario e che anziché di genere si parli di musica».