il Fatto Quotidiano, 26 febbraio 2022
Un inadeguato di successo: Luciano Salce
Che c’è da ridere di uno che non vuole fare l’attore ma è costretto – dalle circostanze, dal cognome, dalle aspettative altrui – a recitare? Molto, almeno a dar retta a Emanuele Salce, figlio d’arte di Luciano Salce, figlioccio d’arte di Vittorio Gassman, showman di successo grazie a Mumble Mumble… ovvero confessioni di un orfano d’arte.
Ora l’attore è tornato in scena, col sodale Paolo Giommarelli, all’Off/Off di Roma: sul palco porta il Diario di un inadeguato, ovvero Mumble Mumble atto II, scritto insieme ad Andrea Pergolari e diretto da Giuseppe Marini. La trama è strutturata in due quadri, entrambi autobiografici (nella finzione; in realtà, chissà): il primo è una storia d’amore, che riannoda il filo con il primo Mumble Mumble; il secondo è una (tragicomica) esperienza di “morte”, quantomeno invocata, dopo un debutto disastroso in teatro quale “primattore cane e raccomandato”.
“Eros e thanatos, come sempre – si legge nelle note di sala –, “pulsioni di vita e pulsioni di morte: la morte dell’amore e l’amore per la morte”. Il piglio psicoanalitico è denunciato e sin recitato: ci pensa Giommarelli a mettersi nei panni dello strizzacervelli per poi camuffarsi da regista o da amico artista. È lui il testimone, il primo spettatore, lo sparring partner di Salce.
Anche il pubblico fa la sua parte, come in una stand-up comedy: la sala è piena – vip compresi, come il gaudente e plaudente Gianni Letta in prima fila con la moglie – e gli ammiratori sono molti. Lo si capisce dalle risate anticipate, scappate di bocca prima ancora che l’attore finisca le battute: della liaison con la belloccia Amanda (che chiudeva rovinosamente il primo spettacolo) gli spettatori sanno già molto, o almeno abbastanza, quanto basta per lasciarsi andare all’ilarità di fronte a un “inadeguato” 33enne incapace di intrattenere una relazione con una donna.
Siparietti a parte – la parodia dei defunti padri è sempre ficcante, così come i funerali della “ziastra” Gassman e l’esercito di “parafamiliari” ingombranti –, il canovaccio più divertente è il secondo, quando Salce non teme più il confronto col primo monologo e si lascia andare a un flusso di coscienza metateatrale: adesso è alla vigilia dei 40 anni, scritturato per caso da un amico come interprete di una pochade, in preda allo sconforto profondo di non essere all’altezza del ruolo e inseguito da idee suicidarie. Il teatrante debuttante vorrebbe gridare al mondo: “Io non valgo un cazzo… E poi mi sarei buttato dalla finestra”. Con la coscienza a posto.
Salce è bravo a condurre il gioco (anche grazie al compagno-spalla Giommarelli) dentro e fuori la recita, alternando registri comici e drammatici, attacchi di panico e autoironia, sentimenti e commenti: la drammaturgia, tuttavia, è un poco disomogenea; c’è uno iato tra prima e seconda parte col risultato di troppi finali, stop and go, cadute e ripartenze. Ma c’è sempre il teatro a tenere assieme tutto: “Il teatro, il treno su cui avrei dovuto salire”. Persino, a volte, per salvarsi la vita.