il Fatto Quotidiano, 26 febbraio 2022
Mosca s’è preparata bene: ha le riserve per resistere
Questa volta è probabile che le sanzioni imposte alla Federazione Russa non saranno di scarsa portata. Se la risposta militare, come ha annunciato Stoltenberg il segretario generale dell’alleanza atlantica, sarà per il momento destinata ad aumentare la presenza di truppe e attrezzature solo nei Paesi Nato più vicini al teatro di guerra ma non in Ucraina, la risposta economica si preannuncia completamente differente rispetto a quella varata dopo i fatti del 2014.
La guerra si fa anche colpendo gli interessi finanziari ed economici del nemico. La Russia sembra però averlo messo in conto ed essersi preparata da tempo per poter resistere, nella sua intenzione, all’impatto che le sanzioni potrebbero avere sul proprio sistema finanziario. La scorsa settimana la Reuters ha riportato le parole del ministro delle Finanze russo Siluanov con cui affermava che lo Stato aveva sufficienti riserve in oro e in valuta per garantire, in caso di sanzioni, il regolare funzionamento delle banche e del sistema dei pagamenti, anche quelli in valuta estera. Queste riserve, frutto dei continui surplus negli scambi con l’estero, sono arrivate alla fine del 2021 a quasi 640 miliardi di dollari, riuscendo a coprire tutto il debito estero che scade entro un anno (circa 80 miliardi di dollari) e quasi due anni di importazioni. Se la Russia non esportasse più nulla da oggi e non avesse nemmeno più finanziamenti dall’estero, avrebbe riserve per continuare a importare per due anni quello che le occorre per il funzionamento della propria economia e riuscendo nel frattempo ad onorare tutte le scadenze a breve termine assunte dai russi con l’estero. Questo risultato è frutto di un controllo serrato del ciclo economico.
La Russia non è riuscita a diversificare la propria economia a sufficienza in modo da renderla meno dipendente dalle esportazioni di petrolio e gas, che contano più del 50% del totale dell’export. Rimane in sostanza un Petrostato, che ha legato le proprie importazioni, fatte per la gran parte di beni più sofisticati (come medicine, mezzi di trasporto, apparecchiature elettriche e così via), all’andamento del prezzo del petrolio. La crescita economica del secondo decennio di questo secolo è stata circa la metà di quella del decennio precedente, dove rappresentava la “r” dei famosi Brics, i Paesi emergenti con un alto potenziale di sviluppo. Nel 2021 il prodotto interno lordo espresso in dollari era ancora lo stesso del 2010. Ma così facendo, comprimendo il ciclo economico in modo che le importazioni fossero sempre inferiori alle esportazioni, ha accumulato una posizione di credito sull’estero, nel senso che i russi hanno più crediti che debiti verso il resto del mondo. Una parte di questi crediti, circa il 40%, è nella forma di riserve valutarie e oro, ma non in titoli di Stato americani, a conferma del fatto che questa forma di difesa fosse ormai studiata da tempo. Dal 2012, quando la Russia aveva circa 160 miliardi di titoli del Tesoro Usa ed era il sesto detentore al mondo, ha progressivamente liquidato questi investimenti, che depositati nel sistema finanziario americano potevano esser facilmente congelati.
Le riserve sono le munizioni finanziarie che Putin ha accumulato per poter difendere il cambio del rublo, per stabilizzare il mercato del debito pubblico, per prestare alle società russe impossibilitate a finanziarsi sul mercato internazionale, per limitare quindi i danni che le sanzioni potrebbero provocare. Aggirare questa linea di difesa vuol dire riuscire a congelarle, sequestrando quanto è presente nei conti e depositi esterni alla Russia, o renderle inutilizzabili nel sistema di pagamento Swift, espellendone le banche russe. L’utilizzo di sistemi di pagamento alternativi, tipo il Spfs russo o il Cips cinese, non possono minimamente compensare l’importanza dello Swift.
L’impossibilità di compiere pagamenti in entrata e uscita dalla Russia significherebbe bloccare i crediti delle banche internazionali nei confronti di cittadini, imprese e banche russe. In questo caso il sistema bancario italiano risulterebbe il più colpito, avendo la maggiore esposizione al mondo verso la Russia, pari a circa 25 miliardi di dollari, seguito da Francia e Austria. Significherebbe anche riuscire a congelare i fondi, pari a circa 125 miliardi di dollari, dei russi all’estero, depositati principalmente nel sistema bancario francese, svizzero e statunitense, che non potrebbero essere riportati in patria. Significherebbe poi bloccare i pagamenti delle esportazioni e delle importazioni, tra cui appunto il gas e il petrolio, mettendo seriamente a rischio le forniture, con danni sia per la Russia che per tutti i clienti del gas russo. Data la dimensione dell’economia di Mosca e i suoi legami internazionali, soprattutto con i Paesi europei, si tratterebbe però di una soluzione di tipo “nucleare”, con ripercussioni difficilmente calcolabili e certamente non confinabili solo all’economia russa. Con il rischio anche di spingere Mosca verso Paesi in grado di fornirle aiuto, come la Cina.