Corriere della Sera, 26 febbraio 2022
Lucio Dalla, a 10 anni dalla morte
Un’intervista funziona se l’intervistato dice una cosa che non aveva mai detto. Così, conversando con Lucio Dalla qualche giorno prima del suo sessantesimo compleanno, cominciai a girare attorno all’argomento: lei declina i suoi brani d’amore al femminile, «Cara», «Canzone cercala se puoi», però... Lui sorrise: «Non ho nessuna confessione da fare». Eppure diventammo amici.
Ritornò sull’argomento anni dopo, un’estate sull’isola di San Domino, alle Tremiti. Aveva una casa bellissima che guardava l’abbazia sull’isola di fronte, San Nicola; sul terrazzo aveva messo uno specchio molto lungo, in modo che pure i commensali che davano le spalle al mare potessero vedere la facciata romanica della chiesa. Il suo posto prediletto però erano «gli igloo», le casette bianche che gli regalarono quando avevano dismesso il vecchio Touring Club, e che Lucio teneva in giardino. Amava raccontare che in uno di quegli igloo era nata la musica di 4 marzo ‘43. Quella volta, senza che gli ripetessi la domanda, Lucio confidò che in gioventù aveva amato donne e uomini. Che con gli uomini poteva essere padre, fratello, amante. E in ogni caso non intendeva dichiararsi, attribuirsi un’etichetta, sposare una causa. Chi dopo la sua morte gli ha rimproverato di non essere mai uscito allo scoperto non conosceva Lucio Dalla. Mentre di sicuro, se gli fosse stato concesso più tempo, avrebbe provveduto al giovane uomo che poteva essere suo figlio, fratello, amante, Marco. Del resto Lucio poteva avere atteggiamenti virili e vezzi femminili: fumare con il bocchino, indossare i pellicciotti, nuotare con certi slip fiorati da donna.
Un’altra cosa che si dice di lui è che fosse un gran bugiardo. In realtà, Lucio non mentiva. Costruiva mondi, inventava situazioni e personaggi. Ingentiliva la vita. Ad esempio 4 marzo ‘43 (testo di Paola Pallottino) non era nata nell’igloo alle Tremiti ma più prosaicamente a casa a Bologna. Tra l’altro quella musica, che compose fischiettando, Lucio sosteneva di non amarla; a chi gli diceva che era stupenda e struggente rispondeva che era solo la rielaborazione di uno stornello romano, «una variante del Sor Capanna»; se è per questo, diceva di non amare neppure Caruso, una canzone incisa in tutto il mondo.
Lucio raccontava pure di avere un sosia, che ogni tanto lo sostituiva ai concerti, cantando in playback, mentre lui andava a vedere la Virtus, la squadra di basket di cui era tifoso. Ero sicuro che fosse una frottola, fino a quando sotto casa in via Massimo D’Azeglio mi presentò un omino identico a lui, persino nel pelo: era il sosia. Nella vita faceva l’imbianchino, e Lucio raccontava – ma quella era quasi certamente una frottola – che in cambio un giorno era andato a lavorare in cantiere al posto suo. Da bambino, a chi gli chiedeva cosa volesse fare da grande, rispondeva: il cane. Ne ha avuti molti, tra cui uno di nome Piero che in quindici anni non l’aveva mai riconosciuto come padrone.
Altri testi glieli scrisse Roberto Roversi, il poeta, che aveva fatto lo stesso liceo di Pasolini, e Lucio raccontava che l’insegnante d’italiano per poter dare i voti ai temi aveva inventato l’11 e il 12; anche questa era quasi sicuramente una frottola, ma gentile. Come quando presentò a David Zard, che esitava a operarsi al fegato, un amico che lo tranquillizzò: «Io mi sono operato un mese fa, e ora guardami, sto benissimo». Al funerale di Dalla, Zard ritrovò il tizio e gli chiese: come stai? «Bene, perché?». Il fegato... «Quale fegato? Non sono mai stato operato. Era un trucco di Lucio, perché ti operassi tu».
Gentilezza e cattiverie
Non l’ho mai visto trattare male un passante o rifiutare un autografo Ma detestava sentirsi usato, allora era capace di cattiverie sottili
Era vero però che a Roma da ragazzo dormiva accoccolato sulle poltrone di vimini dei caffè di via Veneto: «Sono piccolo, ci stavo tutto. Mi bastavano due ore di sonno, perché avevo fretta di ricominciare a vivere. All’alba mi svegliavano i camerieri, ordinavo cappuccino e giornale. Faceva 60 lire». Quando parlava gli usciva l’accento emiliano, più di quando cantava. Sotto casa aveva sempre qualche musicista di strada: una volta ne aveva scritturato uno, e si era sparsa la voce. Offrirgli qualcosa, anche solo un caffè, era quasi impossibile; voleva sempre pagare lui. Non l’ho mai visto trattare male un passante, non salutare per primo un curioso che lo fissava, rifiutare un autografo; se la ressa si faceva troppo pressante – Lucio Dalla era una delle persone più famose d’Italia, e la più inconfondibile – faceva ciao ciao con le mani e spariva, come un folletto.
Suonava a casa di Craxi, e votava comunista (ma a Bologna Guazzaloca). Era stato a cena a casa di Agnelli e di Berlusconi, ma il suo ristorante preferito era da Carolina, una prosperosa matrona pugliese che definiva «la donna più bella del Mediterraneo». Sulla sua barca trovavi i grandi artisti italiani e marinai che parlavano solo dialetto, Mimmo Paladino e un timoniere chiamato Furetto, Peppe Servillo e Cesare Ragazzi da cui si era fatto fare il parrucchino biondo, Fiorella Mannoia e «Giacome», che sbagliava tutte le desinenze: «Lucio, cosa bevo?». Non so Giacome, bevi quello che vuoi. «Non io, tu: cosa bevo?». La conversazione lo divertiva tantissimo, lui e Giacome si volevano molto bene. Poteva essere affettuoso e crudele. Detestava sentirsi usato; era allora capace di cattiverie sottili. Una volta un amico anziano e facoltoso gli chiese di far finire una splendida ragazza maghrebina nella sua stanza – «dille che l’hotel è pieno...» —; Lucio le presentò invece un ragazzo suo coetaneo, e fu soddisfatto di apprendere che era successo quel che doveva succedere. Al suo festival alle Tremiti invitava jazzisti raffinati, ma c’era sempre un cantante napoletano (gli isolani discendono dai secondini dei Borbone); e Lucio era felice di esibirsi con Gigi D’Alessio, lui che aveva suonato con Chet Baker.
Dopo il successo della trasmissione su RaiUno con la Ferilli, «La bella e la besthia» (non si è mai capito perché besthia con l’acca), lo chiamò Sky, per uno show chiamato «L’angolo nel Cielo». Lui accettò ma volle molti set per installare Sky, per poter dire alle persone care: «Ti regalo Sky». Ma Lucio cos’è questa scatola? «È Sky». Al collo portava un piccolo rosario, aveva la casa piena di crocefissi e porte che davano sui tetti, dove usciva a sentire «le parole della gente e l’odore dei mangiari»: era profondamente cattolico, sicuro che la vita terrena fosse soltanto il primo tempo della partita. Cantò per Giovanni Paolo II e alla fine si sussurrarono qualche parola all’orecchio; «ma quello che mi ha detto il Papa lo racconterò solo a mia mamma», morta da anni. Non beveva, non si drogava, mangiava poco, quasi solo melanzane. Non aveva studiato ma era un uomo coltissimo, poteva parlare per ore della Vienna della Secessione e del portale di San Petronio scolpito da Jacopo della Quercia, collezionava Amico Aspertini e i manieristi. Uno dei suoi racconti preferiti era quando Veltroni aveva invitato a cena lui, De Gregori e Berlinguer: «Eravamo uno più imbarazzato dell’altro. Berlinguer chiese a De Gregori che differenza ci fosse tra una chitarra elettrica e una acustica. De Gregori rispose: una è elettrica, l’altra è acustica». Oppure raccontava della notte in cui gli aveva telefonato Vasco Rossi: «Ma secondo te Lucio io sono intelligente?». E tu Lucio cosa gli hai risposto? «Intelligentissimo!».
Siccome «una famiglia vera e propria non ce l’ho», se n’era fatta una sua. Ognuno aveva un ruolo – il fratello maggiore era Tobia, il factotum, le sorelle erano la Tina, cui era affidata la casa, e Vittoria, cui toccavano i cani – e un soprannome: Marco era detto Trìcchete, per la rapidità dei movimenti; il comandante della barca era il Cumpé, «compare» in dialetto di Manfredonia (Lucio parlava il bolognese, il napoletano e il pugliese); Stefano, artista da lui lanciato, era Brillo, e la sua fidanzata ovviamente Brilla (non venni risparmiato neppure io, e fui Poldo, per lo dannoso vizio della gola). Ma il vero capofamiglia occulto era la madre sarta, di cui teneva la foto sul comodino. Il padre però non era «un bell’uomo che veniva dal mare e parlava un’altra lingua», era il direttore del tiro a volo di Bologna. Lucio raccontava che da bambino era cresciuto con tanti «figli ’e bottana smarocchinata», figli della guerra, «di nascita e colore incerti», e voleva immedesimarsi in uno di loro: «Mi sentivo uno zingaro, un apolide dal patrimonio genetico disordinato. La messa in scena della tragedia è la tragedia vera».
Lucio non amava Sanremo. Era vicino di stanza di Tenco nel 1967, fu lui a dare l’allarme, a dire che Luigi stava male, ma di quella notte non ricordava nulla. Tornò nel 2002 perché gliel’aveva chiesto Gianni Morandi, cui voleva bene, fin da quando avevano ascoltato insieme la radiocronaca dello spareggio per lo scudetto 1964 tra Bologna e Inter, immaginandosi la partita riflessa nel muro. Nei giorni di quel Sanremo Lucio era nervosissimo, anche perché non c’era Marco (e c’era Celentano, che non amava). Così telefonava di continuo agli amici. Scelse di non cantare ma di dirigere l’orchestra, e si disse che gli orchestrali se ne fossero adontati perché Dalla ovviamente non sapeva dirigere; spero per loro che non sia vero, perché Lucio non avrebbe mai mancato di rispetto a un musicista; una sera a Stromboli gli chiesero di suonare il clarinetto, lui disse ai colleghi «mi raccomando fate tutto voi che io so a malapena leggere la musica», poi ovviamente li massacrò. Chiuso Sanremo raggiunse Marco a Montreux, per un festival, quello del jazz, cui invece era affezionato. Lì, dieci anni fa, il suo cuore generoso si è fermato. Ma, come nel frammento di un lirico greco che amava, «vivono per sempre i suoi Usignoli. Su loro Ade, che tutto rapina, non metterà le mani».