La Stampa, 26 febbraio 2022
I numeri sul carbone in Italia
Tornare al carbone, per sopperire all’eventuale carenza di gas. Il presidente del consiglio Mario Draghi non lo esclude. «Potrebbe essere necessaria la riapertura delle centrali a carbone, per colmare eventuali mancanze nell’immediato» ha spiegato ieri in Parlamento durante l’informativa urgente sul conflitto Russia-Ucraina.
È un contrordine o quasi il suo, rispetto all’idea di abbandonare il più rapidamente possibile le fonti energetiche più inquinanti. Da tempo l’Enel, il maggior produttore nazionale di elettricità, ha deciso di chiudere tutti i suoi impianti a carbone entro il 2025 in anticipo di 5 anni rispetto ai piani europei. «La scelta del carbone è l’extrema ratio» fanno sapere dal Mite, ricordando che ancora mercoledì il ministro Roberto Cingolani sempre in Parlamento aveva ribadito che l’unica scelta percorribile è quella delle rinnovabili. Opzione confermata ieri dallo stesso premier che dice di voler procedere «spedito» su questa strada.
Ma se dovesse accadere il peggio e l’Italia si dovesse davvero trovare a corto di gas? Più che tornare al carbone, perché ad oggi non abbiamo ancora smesso di utilizzarlo, si tratterebbe semmai di sfruttare di più le centrali ancora disponibili a partire dalle più grandi oggi poco sfruttate.
In Italia sono in tutto sei gli impianti attivi: 4 sono dell’Enel (Brindisi, Civitavecchia, Fusina e Sulcis), uno appartiene ad A2A (Monfalcone) e un altro (Fiume Santo) fa capo alla filiale italiana del gruppo ceco Eph. Monfalcone e la centrale Enel di La Spezia ad inizio dicembre erano state messe in funzione per alcuni giorni per prevenire i possibili rischi di black out legato all’impennata della domanda ed al contemporaneo blocco di 4 centrali nucleari francesi. Poi Monfalcone è stata rimessa a riposo, mentre La Spezia è stata chiusa definitivamente ed oggi non dispone più dell’autorizzazione ambientale integrata per poter operare.
«Di fronte all’aumento esponenziale dei prezzi del gas, alla guerra e ai possibili problemi di approvvigionamento, occorre reagire in modo strutturale» protestano Greenpeace, Legambiente e Wwf. Che bollano come «inammissibile» la proposta di riaprire le centrali a carbone. «L’Italia – spiegano in una nota congiunta – gioca non solo la sua credibilità, ma anche molte delle sue riduzioni di gas serra che deve attuare sul rispetto dell’impegno di chiudere tutte le centrali a gas entro il 2025. Le centrali a carbone vanno chiuse senza se e senza ma, i tentativi dei soliti noti che cercano di riportare in auge persino il peggior combustibili fossile, un vero e proprio killer non solo del clima, ma anche della salute umana e delle attività economiche, si scontra con la sofferenza decennale degli abitanti dei territori su cui le centrali insistono. Tutti gli amministratori – concludono le tre associazioni – indipendentemente dal colore politico, vogliono che le centrali si chiudano: e vanno chiuse».
Oggi le centrali a carbone contribuiscono al 5% della produzione elettrica italiana. Di contro però sono in assoluto le più inquinanti, basti pensare che le più grandi, quelle di Brindisi (2.640 megawatt di potenza) e quella di Torrevaldaliga-Civitavecchia (1.980 mw) in anni recenti sono arrivate a produrre rispettivamente 11,4 e 9,8 milioni di tonnellate di Co2. Tanto per fare un paragone nel mese di gennaio tutti gli impianti italiani che producono elettricità, compresi quelli a carbone, in base al monitoraggio di Terna non sono arrivati a 8 milioni. Se si guarda invece alla carenza di gas bisogna tenere presente ognuna delle due più grandi centrali a carbone consente di fare a meno di almeno 3 centrali a turbogas.
A protestare non ci sono solo gli ambientalisti ma anche il sindaco di La Spezia Pierluigi Peracchini, secondo il quale «l’annuncio di Draghi ha gettato nell’incertezza e sconforto la cittadinanza» dopo che il 31 dicembre scorso è stato raggiunto «il risultato storico della chiusura della centrale Eugenio Montale, cheè ormai è chiusa e non può essere utilizzata». Riaprirla in deroga per decreto? Per il Mite ogni ipotesi è prematura, ma dovesse accadere il peggio è chiaro che anche i suoi 600 megawatt di capacità potrebbero tornare comodi. Comunque sia il Comitato emergenza gas continua a monitorare ora per ora la situazione delle forniture dalla Russia e sino a ieri sera non si registravano criticità. Per cui il ritorno al carbone resta un’opzione sul tavolo, quella estrema. Operativamene l’Enel si rimette alle decisioni del governo ed alle indicazioni che arriveranno da Terna a cui spetta la prima mossa. Il gestore della rete nazionale, il cui compito è garantire sicurezza e stabilità dell’intero sistema, dovrà avviare una ricognizione tra i vari operatori per verificare la possibile capacità aggiuntiva da mettere in campo all’interno del perimetro degli impianti già oggi connessi alla rete. E soprattutto andranno verificate le scorte di carbone. La centrale di La Spezia, ad esempio, a dicembre si è fermata dieci giorni prima del previsto perché l’aveva finito.