la Repubblica, 26 febbraio 2022
Storia della città di Kiev
Nella città santa tutto era già scritto, fin dall’anno leggendario 6476 (il 968 dopo Cristo) quando i nomadi Peceneghi, di lingua turca, dal basso Volga si avventurarono nella Rus’ assediando con le loro schiere Kiev, «cingendola tutt’intorno con una moltitudine innumerevole – racconta il testo medievale dellaCronaca di Nestore - tanto che non si poteva uscire né inviare messaggi e gli abitanti presto furono stremati dalla fame e dalla sete». D’altra parte c’era stato un presagio: «Un segno apparve a Occidente, una stella smisurata si alzava la sera dopo il tramonto, e ciò si ripeté per sette giorni. Quella stella era come di sangue e versamento di sangue preannunciava».
Altri segni erano sparsi nei versi del Canto della schiera di Igor: «Neri nembi vengono dal mare/copriranno i quattro soli/ rabbrividiscono lampi azzurri/ dilagò l’amarezza e un dolore greve/ si riversò dentro la terra russa./ Intanto, fratelli/ gemeva Kiev sotto l’angoscia».
Oggi Vladimir Putin con il suo smisurato esercito è tornato davanti a quegli stessi bastioni dove più di mille anni fa si era rinserrata Olga, la madre del Gran Principe, coi suoi tre nipoti, incitando il popolo alla resistenza. Il Principe Svjatoslav, affascinato dal Danubio e dall’avventura (dormiva senza una tenda, appoggiato alla sua sella d’oro) era rimasto a Perejaslavec col suo esercito di 60 mila uomini, dopo aver preso il controllo del bacino del Don, del corso del Volga, della sponda sul mar Caspio, e dopo aver attaccato i Balcani e sconfitto i bulgari. Ma Kiev sulle acque del Dnepr rimaneva il cuore del commercio sulla via che collega i variaghi scandinavi ai greci del Sud, il Baltico a Costantinopoli, attraversando la steppa, passando per le foreste. Ogni anno in autunno il Principe e la corte viaggiavano dalle tribù slave che Kiev aveva sottomesso, riscuotevano i tributi in miele, pellicce, cera, barche e schiavi e col disgelo che schiudeva il gran fiume tornavano nella capitale annunciati dal suono del corno a palazzo.
Ma la città era anche l’anima dell’antica Rus’, la culla del mondo slavo raccontata da tre leggende. La prima vuole che sia stata fondata da un barcarolo di nome Kij, affascinato dalla vista della collina quando traghettò sull’altra sponda del Dnepr. La seconda narra di tre fratelli che si unirono per costruire le prime dimore sull’altura di Boricev, dove viveva uno di loro, Kij. La terza vuole che i russi variaghi (i quali forse avevano preso il nome dal Volga, allora chiamato Rha) venissero invitati da alcune tribù slave in discordia a comandare sulle loro terre: «Il nostro territorio è ricco e grande, ma in esso non vi è ordine. Venite a governare e regnare su di noi»: quasi prefigurando il destino della “chiamata” dietro la quale il potere russo e sovietico ha sempre mascherato le sue azioni imperiali in ogni epoca, fino ad oggi. Nella leggenda si muove ancora il Principe Guerriero Oleg che dopo essersi spinto fino a Costantinopoli inchiodando il suo scudo sulle porte della città, a memoria perenne, occupa Kiev nell’882 stabilendo che «questa città sarà la madre di tutte le città della Rus’».
È una capitale di guerra, sangue, conquiste e battaglie, con Svjatopolk il Maledetto che uccide due suoi fratelli, e con la tentazione perpetua per tutti i Principi di crescere a Nord sul Baltico, a Ovest nella Galizia, a Sud verso la Persia, e Vladimir II il Monomaco che nel suo testamento parla di 83 campagne belliche con 200 principi uccisi. Una fama che finisce in un’incisione sul cranio di Svjatoslav, trasformato dal Khan vincitore, dopo l’uccisione, in una coppa per il vino: «Chi è avido del bene altrui, spesso perde il proprio». Ma Kiev è anche una capitale spirituale, dopo che Vladimir il Santo obbliga il popolo a convertirsi, portando il cristianesimo al posto degli idoli pagani che sorvegliavano e proteggevano la città nel legno gigantesco delle statue, dal bosco sacro sulla collina di Boricev. Il Dio unico dei cristiani però non arriva da Roma, bensì da Costantinopoli, col greco antico al posto del latino, i canti, le vesti e l’incenso della liturgia bizantina, che da quel momento benedirà i sovrani in un rito separato rispetto alla tradizione di Roma, alla devozione dell’Europa, alla religione dell’Occidente. Il fondamento religioso della Rus’ si separa fin dalle origini dall’Ovest, scegliendo la dimensione dell’Oriente.
Poi la modernità, con la rivoluzione, la guerra civile, quando la città conta dodici rovesciamenti di potere, anzi secondo qualcuno quattordici, addirittura diciotto, il busto nero di Marx che s’innalza davanti alla Duma e le vecchie che aspettano l’Anticristo: «I tempi leggendari si erano spezzati e improvvisamente e minacciosamente vi era entrata la storia». L’Holodomor, la carestia dei primi Anni Trenta con milioni di morti che l’Ucraina ricorda a novembre come genocidio. La guerra con l’offensiva dell’Armata Rossa a fine ’43 per liberare Kiev rompendo il fronte tedesco sulla linea del Dnepr e il telegramma del 6 novembre: «Con immensa gioia annunciamo che il compito di impadronirci della nostra meravigliosa città di Kiev è stato eseguito. Kiev è stata completamente ripulita dagli occupanti fascisti». Comincia la nuova era per la città, che torna a immergersi nei suoi vapori di brina e di fumo che salgono dai comignoli e dal fiume mentre passano i vetturini e le donne coi colletti di pelo argentato, sotto «i globi scintillanti dell’illuminazione elettrica, appesi in alto agli uncini dei pali».
Mikhail Bulgakov usciva di casa, al 13 di Andrijvskij Uviz, camminava in discesa sui ciottoli verso la città bassa, inseguiva d’inverno l’energia che la città aveva accumulato nel sole e nei temporali d’estate, e la vedeva trasformarsi in luce. «Scintillava e traboccava la città, riluceva e danzava e baluginava nelle notti, fino al mattino, quando si spegneva e indossava il fumo e la nebbia». In alto splendeva la bianca croce elettrica tra le mani del gigantesco Vladimir sulla collina, e le barche la riconoscevano da lontano. Si stringeva negli appartamenti una popolazione nuova rifugiata da Mosca, «banchieri brizzolati, uomini d’affari, mercanti, avvocati, dame rispettabili e cocotte, pallide donne dissolute di Pietroburgo, con le labbra dipinte di carminio». Si aprivano nuove botteghe, teatri di varietà, il maestoso Club Cenere per gli artisti, dove c’era rumore di stoviglie fino all’alba.
Come se volessero infilarsi ancora in quel vecchio granaio del mondo che era l’Ucraina, i colombi sovietici prendevano la rincorsa dai tetti dell’Uliza Bafeina, sfioravano i pesci giganteschi scolpiti sopra l’insegna, passavano davanti alle anatre di ferro battuto che adornano il cancello e si tuffavano ogni giorno dentro il Bessdarabski Rynok, quel caravanserraglio di penuria, odori, voglie e memorie che è il vecchio mercato di Kiev. All’epoca di Bulgakov nelle vetrine si mostravano creme circondate da fiori, dorsi di pesce affumicato, selvaggina a grappoli nelle piume colorate. Negli anni finali dell’impero tra i banchi vuoti e disadorni pendevano dai ganci di Stato le teste di maiale a 12 rubli, spuntavano i narcisi a 8 kopeki, il ribes di Povno accanto ai pomodori azerbajdzhani e alle mele grasse di Crimea a 6 rubli, prima dell’uva passa e delle albicocche secche di Tashkent: per arrivare infine laggiù in fondo al banco della carne con tre oche e quindici polli attorno a quattro anatre di Borispol. Fuori, qualcuno prova ancora a vendere a poco prezzo le mele verdi di Zhitomer, sospette per la polvere di Chernobyl. Kiev diffida, tra gloria, disperazione e memoria.
Sul marciapiede le vecchie offrono sul cucchiaio le strisce di cavolo sottaceto, e sembrano pescare negli stessi pentoloni in cui le streghe di Kiev cento anni fa cuocevano le erbe magiche prima di volare sul Monte Calvo a ballare con gli spiriti ucraini dei boschi, al canto popolare dei byliny, i poemi epici orali. Come il racconto del duello tra il giovane Dobrynja e del drago Gorynic con tre teste e dodici code, «che volava basso sulla città di Kiev/ sfiorando la madre terra». Alla fine, dopo aver attaccato col fuoco il ragazzo, il drago possente cade, finisce imprigionato ed è costretto a implorare un accordo: «Stringiamo tra noi due un patto/ di non scontrarci mai nella sgombra pianura/ né mai fra noi far lotte sanguinose./ Da oggi, mai più».