la Repubblica, 26 febbraio 2022
La famiglia di Shevchenko sotto le bombe
Fino a mercoledì sera Andriy Shevchenko, simbolo dello sport ucraino e del Paese, Pallone d’oro da calciatore del Milan e poi ct della nazionale dal 2016 al 2021, sperava ancora che l’incubo della guerra si potesse scacciare: «Come è possibile tutto questo? Il nostro popolo vuole la pace»: lo aveva scritto in un tweet, lo aveva ripetuto agli intimi, alla moglie Kirsten e ai quattro figli. L’incredulità è rimasta tale anche ieri, ma le immagini televisive e le notizie da Kiev lo hanno fatto precipitare nello sconforto: la sensazione dell’irreparabile si è fatta strada quando ha visto che la guerra era entrata nei luoghi della sua infanzia e della sua adolescenza. Obolon, il quartiere a nord della capitale in cui è cresciuto, e il lago Vrbne, dove giocava a hockey su ghiaccio da ragazzino, sono diventati due nomi sinistri, nei dispacci governativi, che invitavano i cittadini di quel distretto a rimanere in casa «per evitare operazioni militari attive».
La famiglia d’origine di Shevchenko vive oggi in un altro quartiere, ma i racconti della mamma Lyubov, della sorella Olena, della nipote e del cognato non sono stati diversi da chi a Kiev è paralizzato dall’angoscia e dal terrore: «La casa trema spesso, non sappiamo che cosa possa succedere». L’angoscia dell’ex fuoriclasse, che era pronto a raggiungere la famiglia dall’Inghilterra ma come tutti non può farlo per via dello spazio aereo chiuso, è contenuta negli eloquenti messaggi già consegnati al web: «L’Ucraina e il suo popolo vogliono la pace e l’unità territoriale. Per favore, vi chiedo di sostenere il nostro Paese e di chiedere al governo russo di fermare questa aggressione e violazione del diritto internazionale. La guerra non è necessaria. La guerra non è la risposta». Parole ponderate sulla «guerra su vasta scala, iniziata dalla Russia: la mia gente e la mia famiglia sono in pericolo». Sheva ha sempre manifestato il forte legame col proprio Paese, che nel 2012 lo spinse a entrare in politica per un breve periodo: «Ma non era cosa mia. Io appartengo al calcio», spiegò aRepubblica, senza smettere di sentirsi e di essere un simbolo dell’Ucraina.