il venerdì, 25 febbraio 2022
Biografia di Francesco Moser raccontata da lui stesso
PALÙ DI GIOVO (Trento). Un ciclista è fatto di tante biciclette messe insieme, sono la collana che porta al collo, oppure la catena, sono le pagine di una vita. Anche per Francesco Moser è così. Scintillante nei suoi 70 anni, abbronzato (scia quasi ogni giorno), ancora asciutto come un vero corridore, ha deciso di raccontare le sue bici in un libro curato da Beppe Conti. Francesco Moser - Un uomo, una bicicletta (Azzurra Publishing, in libreria dal 9 marzo) è un diario sentimentale e meccanico, è la strada ed è la pista da seguire per comprendere chi è stato davvero il più vincente tra tutti i ciclisti italiani, 279 volte primo, molto più di Coppi e Bartali. La sua leggenda, dalle tre Roubaix consecutive ai record dell’ora "spaziali", dall’iride alle maglie gialle e rosa, in fondo è semplice: un telaio, due ruote, il cambio, i pedali, la sella, il manubrio, i freni.
Francesco, si ricorda la sua primissima bicicletta?
"Lasciando perdere il triciclo, che naturalmente avevo ma non conta, la prima bici me la regalò a Natale mio fratello Aldo quando avevo cinque anni e andavo ancora all’asilo. Era il 1956, e quasi nessun bambino allora aveva una bicicletta, io però avevo un fratello corridore di 17 anni più grande: Aldo era anche il mio padrino di battesimo. La prima bici era una Torpado azzurra con le rotelline, la ricordo come se fosse oggi".
Moser con le rotelle: un’immagine che fa sorridere, però tenera.
"Ma lo sa che non si deve più insegnare ai bambini ad andare in bici così? La mia nipotina Chiara ha usato una di quelle biciclettine basse senza pedali, è così che i bimbi imparano a stare in equilibrio, poi quando si è trattato di passare alla bicicletta vera è andata come il vento. Invece le rotelline non vogliono toglierle mai. La cosa più complicata è imparare a frenare, perché i bambini hanno poca forza nelle mani. Ma hanno anche pochissima voglia di frenare, per cui...".
E dopo quella Torpado cos’è successo?
"Per casa giravano le bici sportive dei miei fratelli, erano troppo grandi per me e allora le inforcavo a cavalcioni della canna, senza sedermi, restando in equilibrio. Un numero da circo. Ricordo un ragazzino di Palù, mio amico, che un giorno scivolò e la moltiplica gli si piantò nella gamba, c’erano proprio i denti nella carne. Poi guarì, ma la cicatrice gli restò tatuata".
E la prima bici da corsa, se la ricorda?
"Come no... Era un’Atala grigia e blu che io usavo per andare alla scuola media di Lavis. Aveva il cambio dietro, ma non davanti. Anche quella me l’aveva passata mio fratello Aldo, che corse contro Coppi e alla fine anche contro Merckx. Bartali lo mancò d’un soffio, ma solo perché Gino si era appena ritirato all’improvviso, dopo una caduta. Io ho cominciato a correre piuttosto tardi, avevo già 18 anni. Mi venne voglia quando Aldo tornò da un ottimo Giro d’Italia e mi disse ’Cecco, andiamo ad allenarci’. Cominciò così".
Ci parli della bici della sua prima vittoria.
"Correvo nella categoria allievi ed era una Gbc, pure lei dismessa da Aldo, color champagne. Le biciclette della Gbc le preparava il meccanico Lupo Mascheroni. La prima vittoria la ottenni al Palio del Recioto, una classica. Vinsi anche il campionato italiano, andavo già forte. Quella bicicletta ce l’ho ancora, anche se l’ho riverniciata di rosso per coprire la ruggine".
Su quale bicicletta correva il primo Moser professionista?
"Una Benotto, e la squadra era la Filotex. Anche la mia prima Parigi-Roubaix l’ho corsa su quella Benotto, rischiando pure di vincerla: era il 1974. Nel finale mi ritrovo in fuga con Roger De Vlaeminck, ma purtroppo cado perché mi avevano appena cambiato la bici dopo una foratura, e quella nuova frenava troppo. Io avevo ancora la mano abituata all’altro freno, così cascai. Non male, il finale di quella Roubaix: primo De Vlaeminck, secondo Moser, terzo Eddy Merckx".
Hanno calcolato che nell’incrocio di tutti i risultati, soltanto il Cannibale, ha fatto meglio di lei.
"Allora vuol dire che io sono stato il primo degli umani, perché Eddy non possiamo calcolarlo".
Poi, lei di Roubaix ne vinse tre di fila.
"La prima, nel ’78, la corsi con De Vlaeminck come compagno di squadra. Quando scattai sul tratto più duro di pavé, Roger non poteva naturalmente seguirmi. E nessun altro lo fece. Arrivai da solo".
Nel ’79 e nell’80, a Roubaix sul telaio della sua bici c’era scritto "Moser".
"E quel marchio è rimasto fino alla fine della mia carriera. Le nostre bici continuano a essere prodotte con successo, ci sono idee molto innovative in arrivo. Nelle prossime settimane presenterò un nuovo progetto a cui sto lavorando, e che riguarda il mondo della bici".
Com’era fatta, quella per la corsa più dura del mondo?
"Niente di avveniristico. Il manubrio della Roubaix era più imbottito, la forcella anteriore un po’ più curva per ammortizzare meglio i colpi, e nei pantaloncini avevamo più gommapiuma. Per quel che serviva...".
Tutti abbiamo negli occhi la sua bicicletta più incredibile: quella del 1984 con i "padelloni" per i record dell’ora. Come nacque?
"Quasi dal nulla. In una riunione su pista, a Vienna, avevo notato alcuni corridori tedeschi usare le ruote lenticolari, cioè piene, senza i raggi. Quella anteriore, più piccola della posteriore: ora non è permesso dal regolamento, ma a quel tempo si poteva fare un po’ come si voleva. Chiedemmo a un artigiano lombardo, che produceva pezzi di aerei e i telai in carbonio per la Ferrari, di realizzare il prototipo delle nuove ruote e lui in un mese ci riuscì. Però erano pesanti, troppo. Ci lavorammo, e alla fine andammo a Città del Messico con una bicicletta mai vista".
Siete stati i rivoluzionari del ciclismo.
"I tempi erano maturi. Siamo stati i primi a usare il computer, e per primi puntammo sull’aerodinamica che a grande velocità fa la differenza. Poi stendemmo della resina plastica sul cemento della vecchia pista messicana, che avevamo anche levigato: diventò liscia e pulita come un piatto. La mattina, la brina la rendeva scivolosissima: bisognava aspettare che il sole la asciugasse, e così facemmo. La bici del record la provai in un capannone vicino a Milano, poi al velodromo e mi resi conto che non era facile da governare ma che era molto performante. Come andò a finire, lo sapete".
E poi la bici del Giro d’Italia vinto, sempre nel 1984, nella memorabile crono di Verona.
"In pratica era la bicicletta del record dell’ora, però con i freni e il cambio. Quel Giro fu un duello magnifico con Fignon, che sulle Dolomiti mi aveva preso quasi due minuti. Ma noi avevamo calcolato che recuperando quattro secondi al chilometro nell’ultima crono, avrei vinto. Lo distaccai di due minuti e mezzo".
Narra la leggenda che lei fu aiutato dalla spinta dell’elicottero.
"Eh, buonanotte! Mica stava a dieci metri da me, era ben in alto! E poi le pale dell’elicottero ne fanno di casino, l’aria tira da tutte le parti, è un vortice, figuriamoci".
E la bicicletta dell’ultima corsa, se la ricorda?
"Certamente. Avevo fatto il record a Stoccarda, poi ero stato in Canada e avevo anche vinto. La bici era una "Moser" rossa: al mio paese avevano preparato una specie di totem dove appenderla, il famoso chiodo. Sta ancora lì".
Ma lei in bicicletta ci va ancora?
"Certo, ma con la pedalata assistita elettricamente. Ho settant’anni, non dimenticatelo. La forza per sopportare la fatica ce l’ho ancora, però mi accorgo che i polmoni non sono più quelli di una volta, in salita ho il fiato corto e allora va benissimo un aiutino. Anche se tre anni fa ho ancora scalato lo Stelvio su una bici tradizionale. Sul Gavia, invece, sono salito in elettrico".
Il monte più duro?
"Senza dubbio lo Zoncolan. Per fortuna ai miei tempi era chiuso!".
Le piace il ciclismo di oggi?
"È cambiato quasi tutto, a cominciare dalle strade piene di rotonde, con spartitraffico continui. Mi pare che il corridore si prenda troppi rischi in discesa. E poi, questa faccenda degli auricolari: non so se mi adatterei, non credo. I ciclisti mi sembrano schiavetti pagati bene, che però non decidono mai niente. Fanno tutto i direttori sportivi che li guidano a distanza. Ma un conto sono le informazioni, un altro conto gli ordini! Se fosse capitato a me, forse mi sarei strappato via i cavi dalle orecchie e li avrei gettati nel fosso".