Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  febbraio 25 Venerdì calendario

Qatar 2022, gli stadi come nuove piramidi

Dai faraoni d’Egitto agli Assiro-Babilonesi agli imperatori romani, e poi via via nei secoli, l’uso della grande architettura da parte dei detentori del potere viene in genere visto come “ricerca del consenso”.
Ricerca in cui sono oggi molto attivi tre dei sei Stati del Consiglio di cooperazione del Golfo Arabico: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar. E al momento forse è quest’ultimo, il più piccolo, a occupare più visibilmente la ribalta organizzando “Qatar 2022”, il Mondiale di calcio, il cui inizio è fissato fra nove mesi (21 novembre). Fra luci sfolgoranti e ombre pesanti.
Il Paese ha compiuto passi da gigante da quando, nel 1995, l’emiro Hamad Bin Khalifa al-Thani ha dato impulso all’estrazione del gas da un enorme giacimento sottomarino. Il Pil è passato da 8 a 148 miliardi di dollari (dato 2020); l’emiro, e poi il successore Tamim bin Hamad al-Thani, hanno investito nel lusso, nell’innovazione e anche nell’informazione, creando il prestigioso canale satellitare pan-arabo al-Jazeera. Nello scorso ottobre si sono tenute (primo passo verso una qualche democrazia) le prime, storiche elezioni per due terzi dei 45 seggi del Consiglio della Shura, responsabile delle politiche statali. Ma la vera passione degli emiri al-Thani è il calcio. Già Hamad aveva acquistato uno squadrone francese, il Paris Saint-Germain, e una squadra spagnola così così, il Malaga. Ora, “Qatar 2022” è un autentico fiore all’occhiello. Cautamente, l’Atlante Politico 2016 della Treccani dice che questo e altri successi internazionali sono dovuti a un notevole “attivismo diplomatico, talvolta dai contorni ambigui”. Vedremo: ma intanto prendiamo contatto con la “grande architettura” di cui si diceva: gli stadi. Sono otto, tutti nuovi tranne uno, progettati da archistar internazionali nella capitale Doha o in località non lontane. Senza risparmi, a partire dall’aria condizionata: il costo complessivo del Mondiale si calcola in 200 miliardi di dollari.
Lo stadio che ospiterà la finale (18 dicembre) è a Lusail, località che è la “culla” della famiglia al-Thani: sta sorgendo anche una nuova città. L’impianto è opera dell’87enne Sir Norman Foster (studio Foster+Partners), autore di infiniti progetti, dalla cupola del Reichstag di Berlino al nuovo stadio di Wembley. La forma e la decorazione dell’impianto di Lusail evocano quelle di recipienti della tradizione locale. Ospita 80.000 spettatori; dopo il Mondiale la capienza verrà ridotta a 40.000, e negli spazi così ottenuti si realizzeranno negozi, scuole, case di cura. Il progetto dello stadio Al-Janoub (“meridionale”), in località Al Wakrah, è invece dell’architetta anglo-irachena Zara Hadid, scomparsa nel 2016. Nota per la sua predilezione per le linee curve (come si vede anche nella più nota delle sue opere in Italia, il MAXXI di Roma), in questo caso si era ispirata al dau, tradizionale barca araba. L’impianto costruito nell’Education City di Doha si deve a Buro Happold, studio fondato nel 1976 da Sir Edmund Happold, ora presente con 28 sedi in tutto il mondo. Presenta all’esterno sfaccettature che ricordano quelle del diamante; realizzato con largo impiego di materiali ecosostenibili, ospita 40.000 posti, i quali per metà saranno smontati dopo il Mondiale, donando i sedili per impianti da creare in Paesi meno agiati. Anche lo stadio di Al-Thumama, che nel design ricorda il tipico copricapo detto kefiah, alla fine del torneo donerà 20.000 sedili. Il più lontano da Doha (60 km) è lo stadio Al-Bayt nella città di Al-Khawr, dove si giocherà la partita inaugurale (21 novembre). Vi hanno lavorato imprese italiane (Webuild, Cimolai): la linea esterna è ispirata alle tende dei beduini; il progetto comprendente servizi di vario tipo e ospedali. Singolarissimo il caso del Ras Abu Aboud, l’unico senza aria condizionata, che sarà costruito impiegando 974 container e alla fine sarà completamente smontato. Al-Rayyan ospita uno impianto che non è fra i principali, ma l’area, fra mare e deserto, è fra le più interessanti, con torri e fortezze: quella di Wajba fu teatro nel 1893 di una vittoria contro i Turchi. Lo Stadio internazionale Khalifa, o National Stadium, nel quartiere sportivo di Doha, è l’unico che già esisteva (aveva anche ospitato anche la Coppa d’Asia 2011): ampliato, è divenuto una struttura polivalente.
Stadi geniali, attenzione maniacale al green, all’ecosostenibile, al reversibile: l’obiettivo sembra essere quello di stupire il popolo e di attrarre le élite. Un mondo luccicante ma al tempo stesso oscuro: per esempio, si sa ormai che tutta l’operazione è nata anche grazie anche alla corruzione. Nel 2015 Blatter, il potente presidente della Fifa, è stato costretto a dimettersi, e poi squalificato, in quanto accusato di aver preso soldi per orientare proprio il voto che ha assegnato i Mondiali al Qatar, malgrado (fra l’altro) l’assurdo calendario.
Decisamente ancor più grave il costo in vite umane. Inchieste e articoli del Guardian e di numerosi altri giornali (fra cui Il Fatto) parlano di 6500 morti (cifra approssimata per difetto). Operai immigrati dai Paesi vicini costretti a lavorare dieci ore al giorno anche a 50 gradi per salari bassissimi, taglieggiati per giunta da trattenute di vario tipo; per i decessi, giustificazioni penose nei documenti ufficiali (“insufficienza cardiaca” e via dicendo); molti uomini ricacciati a fine lavori senza aver intascato nemmeno il poco che era stato promesso… Una commissione della Uefa sui diritti dei lavoratori in Qatar, dopo recenti visite, ha sostenuto che “il torneo continua a essere un catalizzatore per un cambiamento positivo”. Visione un po’ soft di un problema che invece dovrebbe turbare le coscienze, a partire – diciamolo pure – da quella degli architetti. Norman Foster ha lavorato anche per l’Expo 2020 a Dubai, nei vicini Emirati Arabi Uniti, con un mirabolante “Padiglione della mobilità” a forma di trifoglio; ci ha lavorato anche un altro superprofessionista, Jean Nouvel, con la immensa cupola del “Louvre di Dubai”. Ebbene, proprio lì, per la costruzione del Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo, sono morti oltre 1000 operai indiani, mentre di quelli provenienti dal Bangladesh e dal Pakistan non si è neppure tenuto il conto. Teniamoci caro il nostro Renzo Piano, che da quell’area gira alla larga.
Se ne potrebbe discutere all’infinito, ma sintetizzando, ci domandiamo, come già il 23 novembre 2020 la Gazzetta dello Sport: “Qatar 2022: ne valeva la pena ?”.