Corriere della Sera, 25 febbraio 2022
Cosa pensa Putin
Nel 2017, tre anni dopo l’annessione della Crimea, una statua in bronzo alta quattro metri dello zar Alessandro III venne inaugurata alla presenza di Vladimir Putin a Jalta, sulle rive del Mar Nero. Sul piedistallo sopra il quale è seduto con la spada sguainata, è scritta la sua frase più celebre: «La Russia ha due soli alleati: il suo esercito e la sua flotta».
Alessandro III è lo zar preferito di Putin, il quale non perde occasione per ripeterne il motto, che evoca orgoglio, solitudine armata, disponibilità al sacrificio per la propria giusta causa, tratti distintivi della Russia di fronte all’Occidente decadente e viziato.
L’avventura ucraina suona plastica conferma di una certa idea del potere e della Russia, che Putin ha progressivamente maturato nei suoi ventidue anni al Cremlino. Ma se finora, dalla Crimea alla Siria, il presidente russo aveva sempre saputo minimizzare gli azzardi geopolitici e vendere abilmente i successi sul palcoscenico interno, il lancio dell’offensiva militare contro Kiev segna un cambio di passo, dove i rischi e i costi appaiono molto più alti di una vaga definizione di successo. Cos’è cambiato nell’approccio mentale di Putin, da spingerlo a una scommessa tanto ambiziosa, pericolosa e non del tutto condivisa perfino da molti dei suoi più stretti collaboratori?
Due dipinti
Per capirlo può essere utile partire da due quadri di Ilya Glazunov, considerato il più grande artista russo del XX secolo e molto amato da Putin, che nel 2010 lo insignì dell’Ordine per il merito alla Patria. Sono due dipinti a olio enormi, esposti l’uno di fronte all’altro a Mosca in un piccolo museo a lui dedicato, proprio di fronte al Pushkin. Il primo ha per titolo «Il mercato della nostra democrazia» e nello stile realista che è la cifra di Glazunov, morto nel 2017, descrive il quadro caotico, inquietante e drammatico della Russia degli Anni Novanta, un Paese completamente allo sbando. Ci sono gli oligarchi e le prostitute, la povertà e l’invasione culturale americana, Eltsin e Clinton, la Nato e i bombardamenti in Bosnia, i bimbi abbandonati e i criminali, la droga e l’alcolismo, la privatizzazione bugiarda e i comunisti nostalgici.
Ancora più importante è l’altro dipinto, che riesce a cogliere il senso profondo dell’operazione politico-identitaria di Putin. Il titolo è «La Russia Eterna». È una composizione ordinata e popolata di santi e scrittori, zar e leader sovietici, principi guerrieri ed eroi del lavoro socialista, patriarchi, scienziati, i morti della Grande guerra patriottica come i russi chiamano il Secondo conflitto mondiale che costò loro venti milioni di vite umane.
Il tutto è dominato da un grande crocefisso, con il Cremlino a far da sfondo e le icone di fianco ai razzi Sputnik. È una tela fiammeggiante, che trasmette orgoglio nazionale in ogni sua parte. È il Russkij Mir, di cui Vladimir Putin si vuole ricostruttore e garante, una visione dove tutto si tiene.
Più narrazioni
In oltre due decenni al vertice, Putin ha cavalcato diverse narrazioni per la costruzione e il mantenimento del consenso. Prima la crescita economica, perseguita grazie agli alti corsi dei prezzi dell’energia. Poi la polemica con l’Occidente, accusato di voler far rivivere la Guerra Fredda con l’ampliamento della Nato ai baltici e agli ex Paesi del Patto di Varsavia.
Quindi il patriottismo nazionalista con l’annessione della Crimea e il sostegno ai separatisti russofoni del Donbass nella guerra finora ibrida e a bassa intensità con l’Ucraina. E ancora la nuova alleanza (geopoliticamente contro-natura) con la Cina, superpotenza emergente. Ma quando ognuno di questi racconti ha cominciato ad esaurire la propria spinta propulsiva, l’ex agente del Kgb fattosi zar è tornato alla sua grammatica originaria: l’autoritarismo, il restringimento quasi totale di ogni spazio di libertà, la mano dura verso gli oppositori di cui il caso di Alekseij Navalny è l’emblema.
Due anni nella bolla
Ma l’isolamento forzato dalla pandemia, due anni vissuti in una bolla impenetrabile ai più, sembrano aver trasformato il leader russo, accentuandone aspetti messianici e quasi mistici. E se già dopo l’annessione della Crimea aveva fatto riferimento al mondo russo, alla necessità di riunificare i fratelli separati dalla «più grande tragedia geopolitica del XX secolo», cioè la fine dell’Unione Sovietica, solo negli ultimi anni Putin si è sempre più immedesimato nel ruolo dell’unto del Signore: «Ha cominciato a parlare della sua missione in termini storici, è diventato meno pragmatico e più emotivo», dice la politologa Tatiana Stanovaya.
La sua distanza fisica e mentale da consiglieri e collaboratori è diventata siderale, facendone un autocrate a tutti gli effetti: «Putin è isolato, più isolato di Stalin», spiega Gleb Pavlovski, che lavorò con lui e con Dmitrij Medvedev prima di diventare un critico del sistema. Ora Vladimir Putin ha fretta. Sente l’età avanzare, la salute vacillare. Il tempo non è più dalla sua parte. Vuole di più e lo vuole subito. Ed è disposto a pagare e far pagare al suo Paese un prezzo molto alto. «La sua è una guerra non solo per l’Ucraina, ma per il sistema europeo – dice l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer – vuole ristabilire la Russia come la potenza prevalente nello spazio ex sovietico, cancellando le umiliazioni degli Anni Novanta». Lo zar sa che una democrazia funzionante in Ucraina metterebbe a rischio la sua regola autoritaria. Così sta puntando al bersaglio grosso, memore di Alessandro III, esercito e flotta unici alleati. All’evidenza, non si accorge di aver sbagliato secolo.