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 2022  febbraio 25 Venerdì calendario

Intervista a Helen Mirren

Dio salvi la Regina, Kandinsky e i vecchi eroi della classe operaia.
Helen Mirren affianca Jim Broadbent in Il ritratto del duca, dello scomparso Roger Mitchell, presentato alla Mostra di Venezia 2021 e in sala dal 3 marzo con Bim.
Nell’ incredibile storia vera l’attrice, 76 anni, è la moglie di un pensionato che nel 1961 rubò, dalla National Gallery di Londra, il dipinto Portrait of the Duke of Wellington di Goya. L’intervista con Mirren è via Zoom.
Per molti lei è “la regina” cinematografica. Ma forse si identifica di più con la protagonista di questo film, figlia come lei della working class.
«Sì, il mio vissuto è più simile alla vita e alla quotidianità di questo personaggio e decisamente lontano dalla regina, da tutto ciò che non sarei mai. Ma se togli lo stile di vita, i suoi palazzi, e togli Dorothy dal vicolo e affronti entrambe solo come esseri umani, sono molto simili. Dai personaggi cerco sempre di eliminare le caratteristiche esteriori e andare dritta alla vulnerabilità, all’umanità di chi racconto. Lo faccio con Elizabeth Windsor: mi piace chiamarla così, più che “la regina”, perché questo la rende più una persona. E anche con Dorothy».
Come vive il Giubileo di platino di sua maestà?
«Io appartengo alla seconda età elisabettiana, la regina salì al trono quando avevo sette anni. Uno dei miei primi ricordi è quando danzavo in circolo alle elementari celebrandone l’incoronazione. Lei c’è stata per tutta la mia vita e ci sarà fino alla fine. Per questo il Giubileo è un momento straordinario, Elisabetta è il monarca in carica più longevo della nostra Storia. Di recente ho visto una sua foto, l’ho trovata splendida, vestita magnificamente. Penso che per la Gran Bretagna sarà difficile quando la perderemo, anche sul piano psicologico. È uno degli elementi fondanti di ciò che siamo.
Immagino che stia approntando quanto necessario, e con attenzione, affinché la monarchia vada avanti anche dopo di lei. Il senso di responsabilità è sempre stato la caratteristica che più la definisce».
Quando ha scoperto la storia dell’eroe della classe operaia raccontata nel film?
«In effetti per me è un eroe e non conoscevo la sua storia. All’epoca avevo 18 anni, non leggevo i giornali, confesso di aver iniziato a 40 anni, prima ero impegnata a costruirer la mia vita. Leggendo la sceneggiatura ho pensato che la storia fosse inventata, poi ho cercato su internet e ho scoperto che era tutto vero».
Difficile ormai trovare una figura di quel tipo nel Regno Unito.
«Tipi alla Kempton saranno sempre con noi perché esisteranno sempre personaggi individualisti, eccentrici, iconoclasti. Ci sono in ogni luogo del mondo, fa parte della natura umana produrre di tanto in tanto una di queste personalità straordinarie».
Si racconta un’epoca che lei ha vissuto. Che cosa le manca di allora?
«I miei genitori appartenevano a una generazione che ha attraversato la depressione tra due guerre, una seconda guerra mondiale, poi ha creato politiche sociali che hanno permesso a persone come me di ricevere un’istruzione. O di usufruire del servizio sanitario nazionale. Mia madre lasciò la scuola a 14 anni, non aveva possibilità di ottenere un’istruzione secondaria. Quella generazione, cresciuta nel dolore e nelle difficoltà, ha creato un mondo di sicurezza e prospettive. A loro dobbiamo molto, a quel senso dell’onestà e di sacrificio che oggi è difficile incontrare. Di quell’epoca mi manca quella generazione, immagino abbia a che fare con l’invecchiare: hai la sensazione che il mondo ti sfugga dalle mani e non lo afferri più. E con l’incredibile rivoluzione della tecnologia e delle arti, più potente della rivoluzione industriale nel cambiare le nostre vite, ti ritrovi sempre più scollegato rispetto al mondo in cui sei cresciuto. E questo si vede nel film».
Il messaggio di libertà individuale della storia riguarda anche i giovani.
«Lo spero. Il bello dei giovani è che possono tentare tutto. Negli anni Ottanta mi preoccupavano, sembrava avessero perso la voglia di cambiare il mondo, puntavano solo a diventare ricchi. Oggi abbiamo una generazione sensibile alle tematiche legate al clima, alle questioni sociali, sessuali, di genere. Credo che il loro compito sia alzarsi in piedi e dire: “Non stiamo ottenendo questo, ed è sbagliato”. Ora a muoversi è una generazione appassionata, da Greta Thunberg a Black Lives Matter, dal MeToo alla Primavera araba. Anche se spesso i movimenti vengono frenati, o repressi con brutalità, l’importante è che quella spinta esista».
A proposito di MeToo, de tempi passati non le mancherà il sessismo. In rete c’è l’intervista di Michael Parkinson per la BBC. Fece una serie di pesanti riferimenti al suo fisico e lei, giovane attrice di teatro, lo affrontò calma e pungente.
«Mi sono sorpresa, rivedendomi, per l’arguzia e l’umorismo con cui l’avevo gestita. Eppure all’epoca fui io a essere criticata, bollata come polemica, forse perché donna. Di certo non ui. Vent’anni dopo lo sguardo è cambiato, si è capito da quale parte stesse il torto. Penso che farei lo stesso oggi».
Quale dipinto ruberebbe per appenderlo in camera da letto?
«Oh, un Kandinsky. O un altro Goya. Sono stata a Madrid a rivedere una sua mostra sul periodo oscuro, difficile da guardare ma molto potente».
Lei si considera, e anche noi la consideriamo ormai, un po’ italiana.
«Non poteva dire una cosa più lusinghiera. Come sa, io e mio marito trascorriamo più tempo possibile da voi, amiamo l’Italia non solo per la bellezza ma per la gente.
Adoro stare tra i nostri vicini a Tigiano, lo può menzionare? È il nostro piccolo paese in Puglia. Lì ci sentiamo così a nostro agio...».
Ha lavorato con Tinto Brass in “Caligola”, con Paolo Virzi in “Ella & John” e poi c’è il video con Zalone sulla pandemia…
«Ho adorato Tinto, sopra le righe, straordinario, una forza della natura. E poi Paolo, molto diverso, un’energia più tenera. E chissà, forse lavorerò ancora con Checco, mi sono divertita a fare La vacinada.
Ora però vorrei girare con lui un film».