La Stampa, 25 febbraio 2022
Il nucleare di Putin
Abbiamo scambiato un desiderio per realtà. La estinzione della Guerra Fredda non ci ha portato, europei, occidentali, ricchi, fuori dalla tragedia. Finito per eutanasia l’Impero del Male sovietico, finite le violenze ultime che non si potevano compiere perché non si sa mai... non c’era più ragione di occuparsi ancora di quel dettaglio nucleare che aveva il merito di aver quasi ritorto la guerra contro se stessa. Lunga vita dunque all’Europa diventata ragionevole, guarita dalle lotte mortali, modello di coesistenza. Con buona pace degli ex jugoslavi, scannati e bombardati ma in una parentesi che non doveva lasciar dubbi o tracce.
Ci siamo fermati alla frase, all’enfasi ostinata del «non saprei mai immaginare che…». Si cantava la ninnananna, perfino i pacifisti eran diventati vintage, la virtuosa missione troppo deturpata da servi sciocchi e filibustieri del falso non allineamento. Eravamo certi di aver sottoscritto una assicurazione contro la tragedia al novantanove per cento. È stata la nostra “belle epoque”, ci hanno risvegliato le torri gemelle. E Putin.
Una mattina un uomo dagli occhi duri, vitrei, freddi, appare in televisione, fa un annuncio ed ecco presentarsi inevitabile, incerto, terribile come il destino, il vecchio dimenticato Grande Imperativo, la Grande Domanda a cui pensavamo di aver già risposto: una guerra in Europa.
E siamo presi, tutti, guardando le bombe e la gente che fugge nei rifugi in televisione, da un orrore vertiginoso e classico. Perché quelle non sono città della Siria o il deserto libico. Quelli, aggressori e aggrediti, sono europei. Il pianeta diventa di colpo un tutto unico, una comunanza di vertigini.
Chi l’avrebbe creduto? Si esita ad andare oltre, forse per non scivolare nel panico. Nessuno, avete notato?, si chiede: ma quante atomiche ha ancora Putin per tenere a bada la nostra indignazione e reazione opponendo il vecchio ritornello del non ritorno collettivo? Come se per magia gli arsenali del Definitivo Olocausto si fossero estinti per vecchiaia o per buona volontà. Come se gli ultimi trenta anni dalla caduta del Muro e dalla gigantesca idiozia della fine della Storia avessero miniaturizzato le varianti del peggio. Eppure il nodo è ancora tutto lì, nel ricatto atomico: solo che qualcuno al Cremlino ha spostato in avanti le linee che fanno scattare il reciproco divieto. Se posso far la guerra “normale” in Siria perché non posso farlo in Ucraina? Se Kruscev e l’ucraino Breznev potevano mandare impunemente i carri armati a Budapest o a Praga perché non posso farli cingolare nelle strade di Kiev? L’Equilibrio del terrore funziona sempre visto che le mie Bombe sono lì e i missili ben allineati nei bunker.
La guerra non ha mai lasciato il nostro orizzonte, è incollata alla pelle di tutti noi. L’evo della pax americana non ha inaugurato il migliore dei mondi, non più della fine della guerra mondiale e la incomparabile realizzazione delle speranze umane del presidente predicatore Thomas Woodrow Wilson, quando i superstiti delle trincee avevano stragiurato che quello sarebbe stato l’ultimo macello. Perduto per strada il comunismo sovietico impantofolato dalla coesistenza e dalla stagnazione, altre più vivaci prepotenze hanno preso il suo posto. Così nel Donbass il fulmine ha di nuovo colpito, irrevocabile. Non esiste neppure per noi, la metà fortunata del pianeta, un al di là della Storia, sempre sporca, paralizzata e invasa da rumori e furori. Presente passata futura, più o meno, ma sempre e comunque la guerra esiste.
La Bomba fa segnare non un punto di chiusura, solo il gran gioco della vittoria a ogni costo diventa più incerto improbabile, richiede astuzie, dislocazioni territoriali e temporali. A quelle sono attenti i Putin. Noi, invece, abbiamo semplicemente dimenticato la guerra. La guardavamo in tv, la leggevamo sul giornale: profittevolmente esotica, lontana, stravagante, primitiva, terroristica. Ci sfiorava con l’attentato e con i fuggiaschi ma non ci riguardava più. Si uccidevano gli altri, i paria del pianeta, a colpi di machete e di kalashnikov, gli insoddisfatti, i fanatici.
Gli orfani della Guerra Fredda ormai liquidata si contano a milioni, la guerra era presente, infettava i pensieri, il suo latte avvelenato sono in tanti ad averlo succhiato. A noi toccava la seccatura di tenerli a bada usando artigli meccanici per non infettarci: aerei, droni, mercenari volenterosi. Ci affannavano Bin Laden, i califfi, gli ayatollah. Facevamo guerre “umanitarie” di cui si possono ostentare perfino le medaglie politiche.
E i russi, gli ex sovieti? Sconfitti irrimediabili, da quello che l’universitario tedesco di nome Heghel, guardando la sera di Jena sfilare le truppe vittoriose di Napoleone, aveva definito “lo spirito del mondo”.
Abbiamo pensato di essere infallibili anche con il nuovo Zar succeduto al pittoresco e obbediente Eltsin. Massacrava i ceceni? Lasciamo fare, affari interni, questi montanari son jihadisti fanatici. Salvava Bashar Assad il torturatore a furia di bombardamenti aerei? In fondo fa il lavoro nostro tenendo lontano califfi ed emiri. Occupava in pochi minuti la Crimea, terra irredenta della catastrofe sovietica? Qualche sanzione ci salvava la faccia e la coscienza per otto anni. Ci stuzzicano semmai le ricchezze di gas e petrolio, gli shopping smodati dei suoi boiari. La sua smisurata, inquietante e esibita potenza affascina quelli che un tempo vedevano cosacchi galoppanti ad ogni angolo.
Questa ex spia di secondo rango, che ha imparato dalla Germania dell’Est come si può vivere allegramente estorcendo denaro agli stupidi capitalisti, non conosce il dubbio che fa tremare la mano e rende titubante. Sa che non ci imbarazza aver a che fare con lui più di quanto imbarazzasse Voltaire il fatto che Pietro il Grande aveva fatto torturare a morte il figlio. Il disinvolto filosofo cinguettava infatti con l’autocrate Grande Caterina.
In nome del nostro fabbisogno energetico pensavamo, astutissimi, che i legami economici avrebbero a poco a poco impacchettato il Gulliver russo. La eterna stralunante ossessione della economia. Come se il petrolio avesse fatto diventare democratica la Arabia saudita o la Algeria! Putin, invece, senza neanche nasconderlo troppo, usava petrolio e gas per ricostruire la potenza militare. Lo scalcagnato arsenale sovietico, invecchiato come i dirigenti dell’Urss sempre sulla soglia del raffreddore omicida, è diventato una armata nuova di zecca, irta di congegni per le guerre del massacro high-tech. Da usare: anche in Europa. —