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 2022  febbraio 25 Venerdì calendario

La poesia del calcio

La cultura di una nazione, sosteneva Pasolini, non s’identifica con quella delle sue élite intellettuali; non rispecchia la cultura della classe sociale dominante, né la cultura popolare di operai e contadini, piuttosto «è l’insieme di tutte queste culture di classe: è la media di esse». In questo senso trovò adatto rivolgere il suo sguardo alle passioni unificanti della società italiana, con un’attenzione non scontata verso il gioco del calcio, che definì «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo».
Nei suoi anni giovanili a Bologna respirò l’epopea dello “squadrone che tremare il mondo fa”, e l’amore per i rossoblù felsinei non l’avrebbe mai abbandonato, portandolo fra l’altro a polemizzare amabilmente con l’amico poeta Vittorio Sereni, a sua volta tifoso interista. Incapace di vivere i suoi interessi con l’approccio passivo dello spettatore, Pasolini praticò in prima persona anche il calcio, dimostrandosi un’inesauribile ala destra. Da ragazzo si dava a partite-maratona che si prolungavano oltre le sei ore, guadagnando dagli amici il soprannome di “Stukas” per la fulminea efficacia delle sue discese palla al piede, e in quel ruolo di cerniera fra centro e periferia della linea d’attacco continuò a giocare fino all’ultimo.
I pareri dei testimoni sono difformi circa le doti tecniche, eppure ci dicono qualcosa del suo approccio complessivo: per qualcuno quell’uomo vorace di vita era un artista del dribbling, capace nei momenti migliori di ricordare il suo idolo di gioventù Biavati, l’inventore del “doppio passo”, mentre per altri si dimostrava tanto lezioso nella ricerca del bel gesto da risultare inefficace. Tutti, però, concordano sul fatto che le brucianti accelerazioni sulla fascia facessero di lui un notevole incursore, e viene spontaneo considerare che lo spirito arrembante del Pasolini calciatore si rispecchiava a perfezione in quello del Pasolini intellettuale.
Per lui i calciatori professionisti erano figure decisive della società italiana, al punto che per i suoi Comizi d’amore, indagine cinematografica sulle opinioni degli italiani circa l’eros e l’amore, volle intervistare anche i giocatori del suo Bologna, finendo per sprofondarli in un colpevole imbarazzo che oggi induce al sorriso.
Al di là del suo valore sociologico, il calcio poteva essere analizzato alla stregua di un linguaggio, composto di unità minime che propose di chiamare “podemi” e decifrabile solo attraverso la conoscenza d’un codice che accomuna tifosi e giocatori. In quel senso, nelle giocate razionali di Bulgarelli riconosceva la misura dei grandi prosatori realisti e negli assalti di Gigi Riva l’urgente e lucidissimo dispiegarsi della poesia; Mariolino Corso lo faceva pensare a uno stravagante maudit, Gianni Rivera a una firma da elzeviro «conservatore e un po’ provinciale… Insomma, democristiano», mentre Sandro Mazzola, più imprevedibile, di tanto in tanto «interrompe la prosa, e inventa lì per lì due versi folgoranti».
Più in generale, cultura e storia plasmano i linguaggi dei diversi popoli, e quello del football non fa eccezione: «il calcio di alcuni popoli è fondamentalmente in prosa: prosa realistica o prosa estetizzante (quest’ultimo è il caso dell’Italia): mentre il calcio di altri popoli è fondamentalmente in poesia». I singoli “podemi”, in altre parole, si combinano in autentiche tradizioni calcistico-letterarie: il calcio degli Azzurri può far pensare a certi cascami dannunziani, quello concreto della Germania all’apparente distacco con cui Thomas Mann macina passioni e morali, mentre l’inesausta vocazione al dribbling del Brasile rimanda a versi impregnati di realismo magico.
Col senno di poi, viene facile riconoscere tutti i crismi del match d’addio in una partita leggendaria, disputata quando ormai aveva compiuto i cinquantatre anni: una domenica mattina della primavera ’75, fascia di capitano al braccio, guidò la troupe impegnata sul set di Salò o le 120 giornate di Sodoma contro quella di Novecento, con Bernardo Bertolucci, già suo aiuto regista, che si contentò di dirigere la propria squadra dalla panchina. Dal momento che per Pasolini il calcio era un rito da onorare in ogni sua componente, volle che i suoi scendessero in campo con le impeccabili tenute rossoblù della sua squadra del cuore, e s’incupì quando vide gli avversari indossare le pagliaccesche uniformi confezionate per l’occasione dalla costumista di scena: casacche d’un viola psichedelico, calzoncini sgargianti, calzettoni arcobaleno.
Lo spirito dell’amichevole sfumò ben presto nell’agonismo, complice un’altra goliardata di Bertolucci, che aveva rinforzato il proprio undici inserendo, fra macchinisti e comparse, qualche ragazzo di talento superiore pescato dalle giovanili del Parma (in terra d’Emilia, non si sono mai spente le voci circa la partecipazione di un imberbe Carlo Ancelotti). Risultato: 5-2 per quelli di Novecento, con Pasolini scuro in volto a fine partita, ma sportivo a sufficienza da riappacificarsi di lì a poco con i vincitori intorno a una torta.
Mancavano appena sette mesi alla notte tragica dell’Idroscalo di Ostia. —