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 2022  febbraio 24 Giovedì calendario

Intervista a Vincenzo Italiano


FIRENZE – Vincenzo Italiano, 44 anni, prima stagione sulla panchina della Fiorentina. Siciliano, nasce in Germania, dove la sua famiglia è emigrata per lavoro, ma a sei mesi rientra in Italia. Precoce: debutta in D a 15 anni, in C1 a 16, in A a 19. Da calciatore 104 partite in A con Verona e Chievo. Sei reti (3 espulsioni, 20 ammonizioni). Regista davanti alla difesa, capitano, testa pensante, l’addio al calcio giocato nel 2014.
Pensava già al dopo?
«No, da calciatore conta solo il presente, la partita, l’attimo che affronti. Però odio perdere. E ho avuto allenatori come Prandelli e Malesani capaci di tirarmi fuori cose che io non sapevo di avere. Questo mi ha sorpreso. Mi sono chiesto: come hanno fatto ad accendermi il fuoco? Come si possono vedere cose che stanno dentro e che ancora non sono venute fuori? Così ho iniziato a prendere appunti, a segnarmi sui quaderni i loro discorsi motivazionali, le difficoltà che trovavo, gli allenamenti, i carichi di lavoro. Tutto. Ho ancora quei fogli».
Lei ha fatto tanta gavetta: Arzignano, Trapani, Spezia.
«È indispensabile, la consiglio.
Quando ti trovi con l’acqua alla gola è utile ricordare che in certe situazioni, forse anche peggiori, ci sei già stato e ne sei venuto fuori.
Provare, sbagliare, aggiustare, rimediare, resistere. Serve averlo già fatto. E dimenticarsi di essere stato un giocatore. Devi azzerare tutto, non diventi allenatore se non pensi a livello collettivo, se ti concentri solo su te stesso. Me lo sono segnato tra gli sbagli: far fare agli altri quello che riusciva a te, imporre quello che avresti fatto tu, sostituirti a chi gioca. È l’errore che ha fatto Maradona da ct dell’Argentina».
Lei però per Maradona in campo aveva una passione.
«Molto. È stato il mio idolo. Cruyff, Pelé? No, Diego per sempre. Nella mia stanza avevo il suo poster autografato, i primi Mondiali visti sono proprio quelli dell’86. Mi piaceva da pazzi il suo andare contro il potere, la sua capacità di dare orgoglio, visibilità, ragione di vita, a chi prima non lottava per il titolo. Ha fatto tanto, sempre, ma il suo primo anno al Napoli è stato strepitoso. Non è solo per come aiuti gli altri, per le prodezze in campo, per come fai rinascere una squadra, una città, un territorio, ma per come ne fai un simbolo. Gli ho tifato contro solo ai Mondiali 90, in Italia-Argentina, la mia bandiera era il tricolore con dentro il simbolo della Sicilia, per via del nostro Totò Schillaci. Mi vedevo in tv tutte le partite, nel 2006 invece ero allo stadio a Berlino dove Lippi ha fatto un gran lavoro di squadra».
A proposito di rigori: lei li batteva senza rincorsa.
«Sì. Da fermo, guardando il portiere. Sui rigori ho un’idea precisa: sbaglia chi li fallisce. Portiere bravo? Può darsi. Sicuramente, rigorista non buono. La porta è grande e la palla piccola. L’ho spiegato ai ragazzi: il rigore è un vantaggio enorme, sprecarlo non si può, è un peccato».
Dragowski contro l’Atalanta ha toccato 80 palloni.
«Per me il portiere è un calciatore di movimento che sa e può usare anche le mani. Va coinvolto nel gioco. Deve parare, ma anche aggiungersi al centrocampo, essere un altro attaccante, l’uomo in più. Si è visto nel Milan come un lancio di Maignan ha favorito il gol di Leao. È finito il tempo in cui il portiere veniva avanti nell’ultimo minuto, in aiuto alla squadra che doveva recuperare, come soluzione disperata. Passare la palla indietro non è un’onta, né una rinuncia, è un modo per far ripartire il gioco con razionalità e con un’idea. Meglio che calciare in tribuna».
La Fiorentina è la squadra con più espulsioni (7). Anche il suo Spezia fu secondo per squalifiche.
«Ci tengo a dire che da allenatore non sono mai stato espulso. Non mi perdonerei mai di lasciare la mia squadra in difficoltà, io gesticolo, mi sgolo, ma resto lucido. Mia mamma mi ha sempre chiesto: perché gli altri a fine partita parlano normalmente e tu sei sempre stravolto e senza voce? Perché ho passione, perché in campo gioco anch’io. Quanto alla fallosità delle mie squadre non sono calcolate, ma se alleni per la salvezza, e devi stare dietro a ritmi più alti, a cui non sei abituato, se sei sempre oltre alla soglia delle tue forze, se vai all’arrembaggio, ci sta che per stanchezza, calcolo sbagliato, irruenza, fai fallo. Oltre a quello tattico e sistematico per portare a casa la partita».
Lei fu espulso al primo gol in A.
«Sì, in Verona-Inter nel 2000, con un tiro da lontano, in porta c’era Frey.
Non ci ho visto più dalla gioia e sono andato ad esultare sotto la curva, dentro mi scoppiava il cuore. Ma ero stato ammonito un minuto prima.
Nella foga mi ero dimenticato che a Verona attorno al campo c’è la pista. La divorai, tutta l’Italia mi stava guardando. Ma almeno sono servito a qualcosa visto che poi la regola è stata modificata».
Cambia formazione ad ogni partita. Non crede nelle gerarchie?
«Credo nel merito e nell’impegno, non nelle caste dei titolari. Bisogna che tutti i giocatori siano partecipi dei valori e degli investimenti della società. Io faccio capire ai miei giocatori, anche a quelli che sono riserve, che non li abbandono, che sono sempre nella mia testa, che tutti servono. Credo nei ricambi, in chi ha voglia e ha fame, in chi in allenamento dà prova di essere in forma. Non ho preclusioni, tutti devono essere stimolati, sentirsi arrivati non aiuta. Faccio eccezione sul portiere, dove una gerarchia c’è, anche se modificabile, in Coppa Italia ho sempre alternato Dragowski a Terracciano, appunto per farlo giocare».
Non alternava Vlahovic.
«Come si fa con uno come lui che la butta sempre dentro?».
Messi e Ronaldo di oggi giocherebbero con lei.
«Non lo so, onestamente. Ma sono due grandissimi, fanno squadra a sé».
Lei sostiene che il calcio di oggi è complesso, non complicato.
«Sì. Devi pensare a molto, a tutto, curare i particolari. E io difficilmente stacco. Devi vedere quello che c’è fuori e dentro il campo. Contano le statistiche, i numeri, gli avversari, tutti quei dati che oggi si possono avere, ma quando sono in panchina io mi fido dei miei occhi. Mi piace che una squadra sia riconoscibile. Per carattere e identità. Poi discutiamo anche delle percentuali del possesso palla».
Da gioco all’Italiano a gioco anti-Italiano: tanti i giochi di parole.
«Non soffro gli spareggi. Né in D, né in C, né in B. Nei play-off le mie squadre se la sono sempre cavata bene. A Trapani mi dissero che la squadra doveva ‘galleggiare’, sto ancora cercando di capire cosa significasse, da mille spettatori e con problemi societari enormi, abbiamo fatto il tutto esaurito. È stata la mia prima promozione, una grande soddisfazione. Ringrazio ancora Pagliarulo, il capitano, che mi ha sorpreso per la forza. Con lo Spezia contro il Frosinone abbiamo vinto 1-0 e perso 1-0 con un gol subito a 10’ dalla fine e lì mi è capitata per la prima volta una cosa che non mi era mai accaduta. Ho visto i miei afflosciarsi, in balia del cronometro. Poi siamo passati per il vantaggio in classifica».
E questa Fiorentina?
«Respira. Siamo in una posizione tranquilla. Non vedere più il mondo dal basso aiuta, ci allontana da qualcosa che non ci appartiene.
Lavorare a Firenze è speciale, il calcio è vita e calore e il fatto che i nostri tifosi sognino mi dà stimoli.
Siamo partiti per riavvicinarli e farli divertire, il pensiero ora è l’Europa, non come ossessione, ma come un sogno da coltivare».
Nel 2012 da giocatore del Padova è finito nel calcioscommesse, l’anno dopo l’accusa è stata derubricata a condotta anti-sportiva.
«Ho sofferto come un cane per l’ingiustizia dell’accusa. Ero ko, a fine carriera, ma quel tormento mi ha aiutato a capire che ci si sempre può rialzare, anche quando vedi il tuo mondo crollare. Se ci riesci, non ti ripaga, ma ti fortifica».
Tornato da ex a La Spezia è stato insultato per tutta la partita.
«Passo per un traditore. Per uno che aveva firmato il rinnovo, poi ha voltato le spalle, e scelto un’altra. La realtà è che avevo firmato a certe condizioni che sono improvvisamente cambiate. Per me i fischi sono sinonimo di passione, credo che i tifosi liguri mi abbiano voluto bene».
Il giocatore che vorrebbe avere?
«Sergio Busquets del Barcellona perché ha detto: la mia partita perfetta è quando non faccio nemmeno un errore».
L’Italia di Mancini la vede ai Mondiali?
«Non esiste che manchiamo a due edizioni consecutive. Non ci posso proprio pensare. Sono ottimista, ce la facciamo».