il Giornale, 24 febbraio 2022
Un saggio sugli scacchi del filosofo Massimo Adinolfi
Il dramma si consuma l’11 maggio del 1997, al trentacinquesimo piano dell’Equitable Building, numero 787 della Settima avenue, New York. Su una comoda poltroncina, di pelle rossa, il campione del mondo di scacchi, Garry Kasparov, nell’ultima e decisiva partita contro Deep Blue, gioca col nero. Ha risposto all’apertura, con pedone di re, della macchina usando un grande classico: la difesa Caro-Kann. Una scelta posizionale, ma comprensibile se si ha difronte un calcolatore che non sbaglia mai. Alla settima mossa attacca, con un pedone, il cavallo bianco per diminuire la pressione che inizia a crescere contro le sue linee. Si immagina che il computer non scambierà mai il cavallo per un vantaggio di posizione. Perché? Perché le macchine non giocano così, ha fatto dei test con il suo staff. Ma Deep Blue accetta di scambiare un pezzo pregiato per un vantaggio di posizione, non è più come le altre macchine. E vince. Da allora, con l’aumento della potenza di calcolo, il primato nel gioco è passato ai calcolatori. Ora come ora, sono gli scacchisti a studiare, per migliorarsi, le partite giocate dai computer e non i programmatori a imbottire le macchine di partite umane da mandare a memoria.
Da quel giorno gli scacchi hanno smesso di essere una cosa umana? Se volete una risposta a questa domanda niente di meglio del libro del filosofo teoretico (insegna all’Università Federico II di Napoli) e scacchista Massimo Adinolfi: Problemi magnifici. Gli scacchi, la vita e l’animo umano (Mondadori, pagg. 204, euro 18,50). Armato delle idee di pensatori come Ludwig Wittgestein o Blaise Pascal, Adinolfi vaga attraverso le sessantaquattro case della scacchiera per fornirvi una risposta rassicurante. Per giocare a scacchi bisogna sapere di giocare a scacchi e il computer non lo sa. Può anche giocare automaticamente la partita perfetta ma è un essere umano (per ora) a stabilire che quella è una partita.
Ma questo non è il solo problema a cui Adinolfi prova a dare scacco matto, utilizza pedoni donne, alfieri... e scacchisti in carne ed ossa per analizzare un sacco di altre questioni, come fossero complessi finali di partita.
Dà largo spazio al perché ci piace giocare, ad esempio. E del resto ci sarà un motivo se persone possono restare chine ore e ore a cercare di far cadere il re avversario (tra professionisti non si fa, ma noi che siamo dilettanti lo vogliamo veder rotolare sulla scacchiera, eccome se lo vogliamo). In questo caso è memorabile il crollo emotivo del più famoso campione dell’Ottocento, Paul Charles Morphy (1837-1884). Rinunciò alla scacchiera perché gli sembrava futile. Ma dopo quella rinuncia tutto iniziò a sembrargli futile e carico di tristezza. C’è qualcosa che spinge gli umani a giocare, la sospensione del tempo che è propria del gioco e, per un attimo eterno, ci fa sentire simili agli dei. Così gli scacchi, un gioco dove i professionisti sono ossessionati dagli orologi che regolano il tempo delle mosse, si collocano proprio all’incrocio tra il senso di eternità e lo zeitnot, la parola che indica quando un giocatore è in deficit di minuti per portare a termine le sue mosse.
E poi mirabili le pagine relative agli scacchi e il genio. Non c’è gioco che metta più a dura prova una mente contro un’altra. Un gioco senza alea, senza scuse. Forse per questo Gilbert K. Chesterton ha scritto: «I poeti non diventano pazzi, ma i giocatori di scacchi sì». Senza contare che anche Puskin ha segnalato la gravità della faccenda in un suo romanzo: «Questo ufficiale minaccia di darmi scacco matto. Bisogna che lo uccida». Ma quando non ci sono di mezzo i computer come funziona? È tutto calcolo? C’è arte? Si può giocare d’intuizione o di psicologia?
Uno psicologo ungherese, László Polgár, aveva fatto suo il motto: la genialità si crea. Detto fatto, tutte e tre le sue figlie sono diventate campionesse. Zsuzsa: gran maestro e campionessa del mondo femminile dal 1996 al 1999. Zsófia: maestro internazionale e campione del mondo femminile under 14 nel 1986. E soprattutto Judit, diventata gran maestro a soli 15 anni, e arrivata ad occupare l’ottavo posto assoluto nel ranking degli scacchisti, cosa mai riuscita ad una donna prima o dopo di lei. Per dirla con le parole di Kasparov: «Le Polgár hanno dimostrato che non ci sono limitazioni intrinseche alle loro capacità: un’idea che molti scacchisti rifiutarono di accettare, fino a quando non furono schiacciati senza troppe cerimonie da una dodicenne con la coda di cavallo». Judit è stata la vera Regina degli scacchi al di là della serie Netflix o del libro di Walter Tevis, una regina costruita a casa in modo inquietante. Eppure nessuna delle Polgár ha mai dato segni di squilibrio (a meno che il fatto che Susan Polgár parli sette lingue possa essere considerato tale). E la stabilità mentale tra gli scacchisti non è scontata. Le ragazze Polgár si sono tutte ritirate dal gioco professionale ad un certo punto, ma all’apparenza senza grossi traumi per essere state sedute davanti ad una scacchiera all’età in cui si tira la pappa contro il muro.
Quanto a scacchisti traumatici o traumatizzati invece nel libro ne incontrerete un bel po’, Adinolfi dà buon conto anche di tutte le teorie psicanalitiche che sono state elaborate attorno al gioco. Adinolfi riesce a far dialogare i demoni della scacchiera, come il bizzoso Fischer o l’aggressivo Alekhine con i grandi filosofi da Platone a Kant. Del resto se la metafora della partita a scacchi con la morte è di auto evidenza, la filosofia che partita gioca se non quella?
Il risultato del gioco su queste due scacchiere parallele è un libro davvero molto denso e bello. Ma sulla densità Adinolfi è gentile, avvisa il lettore quando può saltare un po’ di filosofi e evita le notazioni scacchistiche ammazza neofiti. In compenso solo la carrellata di tipi umani che muovono i pedoni merita la lettura. A partire da Claude Frizzell Bloodgood III che rischiò di diventare un campione di scacchi dal braccio della morte o lo scherzoso Michail Tal che portò la burla nel serioso mondo degli arrocchi e del bel gesto per spostare i pedoni (e il gesto conta, ve lo spiega Adinolfi quanto). Ma se negli scacchi quando cade la bandierina la partita è finita, nei giornali finisce ad un certo numero di battute. E queste non bastano per raccontare di più. E quindi lo scrivente chiede patta e rimanda a Problemi magnifici che in così poco non può risolvere.