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 2022  febbraio 20 Domenica calendario

Intervista a Rick Bass - su "Cane da petrolio" (Mattioli 1885)

Domanda che si può rivolgere solo a un abitante del remoto Montana, tra le Montagne Rocciose e le Grandi Pianure: ghiacciai e praterie, parchi e laghi, oltre alla più grande concentrazione di grizzly degli Stati Uniti, dopo l’Alaska. Dunque, con gli orsi come se la cava?

«Di solito bene, mi sono sentito in pericolo solo un paio di volte, erano madri con cuccioli. Sono animali forti e intelligenti che esigono rispetto. Entrare nel loro territorio impone concentrazione: significa sapere dove vanno quando c’è vento oppure no, conoscere le loro abitudini. Se si attivano i sensi non è difficile conviverci».

È vero che vive in una «cabin», una capanna fatta di tronchi?

«Passo la maggior parte del tempo nella cabin. Risale al 1903, per noi americani quasi un pezzo di antiquariato. Lì scrivo (a mano, ndr). La mia vera casa è però a cinque minuti di cammino: anche quella è in legno, ma con la corrente, pannelli solari e una debole connessione a internet».

E infatti i suoi racconti sono ancorati al Novecento, senza Google, wi-fi o gps. Perché?

«Non amo i marchi. E poi Google non stimola i sensi».

Torna spesso su questi concetti. Tatto, udito, olfatto, vista, gusto: sensi accesi da sterminati spazi aperti, foreste, ruscelli. Qui Rick Bass — scrittore, docente, instancabile attivista per la tutela della Yaak Valley nel nordovest del Montana, dove vive (in tutto 338 anime) — ambienta le sue storie, nel profondo paesaggio americano. Che sia quello sventrato dall’estrazione di gas del Texas (nello splendido racconto Pagani), lo Utah dei mandriani (Nel paese di Ruth), le paludi del Mississippi (L’attesa), lo scrittore vi immerge i personaggi e li fa emergere più brillanti, più autentici. Appassionati. Le sue novelle — iperrealistiche e liriche — sono inni a una vita intensa, anche se non necessariamente eccezionale. La raccolta Cane da petrolio, definita «un classico americano», arriva ora per la prima volta in Italia pubblicata dall’editore Mattioli 1885.

Cantore della natura o dell’animo umano?

«Negli Stati Uniti abbiamo una fiorente tradizione di nature writing: narrativa in cui il mondo esterno, l’outdoor , è essenzialmente un personaggio. Alcuni ritengono che si tratti di una sottocategoria rispetto alla letteratura “vera”: la cosa è in effetti fastidiosa, ma la vita è troppo breve per preoccuparsene. Io rispondo così: scriviamo quello che conosciamo, quello che ci emoziona. E del resto l’arte fa proprio questo: aiuta la gente a “sentire” con maggiore intensità».

Chi è allora il vero protagonista dei suoi lavori?

«Tutte le mie storie ruotano intorno a donne e uomini. Possono comparire bisonti, cani, capre, ma devo dire che a me interessa la mia specie. E se inserisco nella narrazione elementi del mondo “fisico”, “esterno”, “naturale”, non è per sminuire il personaggio, anzi. Mostrare come un protagonista ha a che fare con il tempo e con lo spazio lo rende più ricco, più sfaccettato. Detto questo, resto convinto del fatto che il paesaggio sia un elemento della storia tanto quanto un ascensore, un’automobile, un marciapiede. Capisco che il lettore poco avvezzo all’outdoor possa pensare che i miei siano racconti “su” montagne e vallate, ma non è quello il mio obiettivo».

E qual è?

«Riprodurre con la scrittura lo stato di incertezza che si sperimenta mentre si sogna. Quella sensazione di ricevere immagini senza poterle manipolare, con tutti i sensi coinvolti. Ecco che cosa mi sforzo di fare: ricreare con le mie storie quella condizione e aggiungervi il mio codice etico».

Com’è che un geologo petrolifero è diventato un attivista ambientale?

«Quando mi occupavo di oil and gas, negli anni Ottanta, tutti pensavamo che fosse giusto e responsabile cercare gas naturali per sostituire il carbone fossile. Poi è arrivato nel 1989 The End of Nature di Bill McKibben, forse il primo libro a mettere in guardia dai rischi del surriscaldamento globale e del buco nell’ozono, ed è cambiato tutto. La mia preparazione da geologo mi ha allora consentito di denunciare a voce alta i danni delle estrazioni. Non si può tacere. Come per la Yaak Valley: è folle abbattere l’antica foresta che rappresenta il modo migliore per assorbire anidride carbonica».

Lei si definisce un autore dell’ovest?

«Molto».

E qual è la specificità del narratore «Western»?

«Semplice e inevitabile: la geografia, il luogo in cui si vive. Non possiamo sfuggire al nostro posto: non è obbligatorio scriverne, ma dove viviamo è chi siamo. Almeno per me».

C’entrano gli spazi sconfinati?

«Fino a un certo punto. Anche un autore di Seattle, una metropoli, per me è un Western writer».

Perché?

«Per la condivisa convinzione che qui non tutto è deciso, che puoi ancora scegliere la tua personale avventura, che in qualsiasi momento puoi entrare in un mondo più vasto e vecchio in cui le leggi della natura sono diverse da quelle dell’uomo. Lo ritengo un immenso dono per l’immaginazione, quel senso di umiltà per cui non tutto è certo e controllabile e ci sono ancora tante opportunità per connettere cose che di solito non sono connesse: idee, pensieri».

A proposito di connessioni, perché allora i suoi personaggi sono così soli e solitari?

«E chi non lo è? È la condizione del genere umano. Siamo gli ultimi arrivati sulla Terra. Non abbiamo nel sangue, come osservava D. H. Lawrence, “la radice della conoscenza”. Siamo un’esperienza fugace. Chi non si sente solo non si sta guardando intorno».

Ci sono posti in cui ci si sente più soli, però.

«Io non mi sono mai sentito tanto solo come in città».

È più attivista o più scrittore?

«Grazie al cielo non devo scegliere, ma mi sento pienamente impegnato in entrambi i ruoli. A volte vorrei scrivere e basta, ma sarebbe irresponsabile data la situazione...».

Lei è molto amato da «colleghi» come Kent Haruf, Joyce Carol Oates, Daniel Woodrell, Lorrie Moore. Chi sono i suoi maestri?

«Sono così tanti. Jim Harrison, Raymond Carver. Amo le storie Western di Annie Proulx, le Southern (del sud) di Eudora Welty e Flannery O’Connor. Poi anche Ivan Turgenev».

I suoi personaggi non sono santi, ma lei non dà giudizi morali.

«Fa parte della mia poetica. In una buona storia devi lasciare che gli esseri umani si comportino come tali».

E perché i suoi racconti parlano tanto di amore?

«Mi piace scavare in questo sentimento perché è un po’ come andare nel bosco: le tue sensazioni sono ingigantite, senti tutto più violentemente, non sai cosa troverai. Ed è il massimo per me».