Corriere della Sera, 23 febbraio 2022
Su "Invincibile Russia. Come Pietro il Grande, Alessandro I e Stalin hanno sconfitto gli invasori" di Andrea Santangelo (Carocci)
Sostiene Alessandro Barbero che la storia non si ripete mai uguale, non esiste nessuna legge storica precisa, nessun «insegnamento» che valga per sempre. Tranne uno: «Mai invadere la Russia!». Si tratta di una scherzosa allusione alle due campagne che videro infrangersi malamente i sogni di grandezza di Napoleone Bonaparte (1812) e quelli di Adolf Hitler (1941). Due imprese rovinose che furono decisive per la disfatta militare di entrambi. Sia Napoleone che Hitler attaccarono la Russia in giugno, contando di sbaragliarne gli eserciti dello zar Alessandro I e di Stalin nel giro di poche settimane. Furono intrappolati in terra russa, invece, fino all’autunno. E ci pensò poi il «generale inverno» a provocare la loro catastrofe. Definitiva.
Ancora oggi non è chiaro — scrive Andrea Santangelo nell’interessantissimo Invincibile Russia. Come Pietro il Grande, Alessandro I e Stalin hanno sconfitto gli invasori che esce domani da Carocci — cosa abbia potuto spingere qualche re, dittatore o genio militare a invadere un Paese di 17.075.400 chilometri quadrati, il doppio degli Stati Uniti, attraversato da undici fusi orari, con montagne, deserti, steppe, tundre, taighe, foreste; popolato da 194 gruppi etnici che parlano 97 tipi di lingue diverse. Napoleone e Hitler, all’apice del successo, si lasciarono tentare da quell’affascinante avventura. E ne uscirono distrutti.
Qualcuno, è vero, secoli fa era riuscito nell’impresa. Nel 1236, il nipote di Gengis Khan, Batu, attraversò il Caucaso alla guida delle cavallerie mongole. Forte di centoventimila uomini, nel giro di tre anni, Batu conquistò tutti i principati russi. Per ultima, nel 1240, cadde (e fu rasa al suolo) Kiev. Stessa sorte subì in seguito Mosca. Che però fu rapidamente ricostruita, divenne la capitale di un principato indipendente, finché, nel 1300, venne conquistata da Daniil Aleksandrovic, figlio di Aleksandr Nevskij. La dominazione mongola in ogni caso durò due secoli, fino a quando i Rus’ riconquistarono l’indipendenza sotto la guida di Ivan III il Grande (1462-1505).
Successivamente ci furono un’altra mezza dozzina di tentativi di invasione. Ai quali va aggiunto il tentativo del re di Svezia Carlo XII (1709) «velleitario» quanto si vuole, ma che, secondo Santangelo, in un certo senso può ottenere dagli storici un giudizio più benevolo di quello riservato a Napoleone e Hitler. Il re svedese è in qualche modo «giustificabile» a differenza dei suoi successori, francese e tedesco, i quali «sapevano bene cosa fosse successo nel passato». E, nonostante ciò, si sono lasciati risucchiare dal «buco nero dell’infinita grandezza dei territori russi, rimettendoci così gli ambiziosi sogni di gloria militare».
Santangelo si sofferma perciò su quel precedente. Tutto ebbe inizio nell’aprile 1697, quando improvvisamente morì Carlo XI e il fiorente Regno di Svezia passò al suo unico figlio maschio, Carlo XII (1682-1718), quindicenne. I nemici di lunga data della Svezia pensarono di prendere quel giovane sovrano in contropiede e trovarono un accordo per un attacco congiunto su tutta l’area baltico-scandinava. Un ragazzino di quell’età, pensavano, «non poteva certo avere la tempra da guerriero del padre che in gioventù addirittura combatteva a mani nude contro gli orsi». E neanche la maturità o l’esperienza necessarie a governare un sì vasto insieme di territori. Le stesse cose che — come riferisce Lindsey Hughes in Pietro il Grande (Einaudi) — avevano pensato i nemici della Russia quando il giovanissimo Romanov nel 1682 all’età di dieci anni, su suggerimento del patriarca di Mosca, era stato scelto come zar (coreggente con il fratellastro Ivan V gravemente menomato). E anche quei nemici del giovanissimo zar furono in errore.
Ben presto, scrive Nicholas V. Riasanovsky nella Storia della Russia. Dalle origini ai giorni nostri (Bompiani), Carlo XII «si rivelò un vero genio militare». Con «incredibile audacia» varcò il mare e portò la guerra nel cuore della Danimarca costringendola alla resa (trattato di Traventhal). Poi passò ad occuparsi della Russia e assalì all’improvviso l’esercito di Pietro I che assediava la piazzaforte di Narva (novembre 1700). A dispetto della loro inferiorità numerica, gli svedesi uccisero diecimila nemici, ne misero in fuga trentamila, fecero prigionieri dieci generali e decine di ufficiali.
Quindi quel re svedese ora più che ventenne concentrò, nel 1706, i suoi sforzi verso la Polonia per sostituire Augusto II, da lui ritenuto il «nemico più pericoloso», con il filo-svedese Stanislao Leszczynski (trattato di Altranstädt). Non diede alcuna importanza, Carlo XII, al fatto che Pietro il Grande, nel frattempo, avesse iniziato a costruire, alle foci della Neva, la città di Pietroburgo (1703). E, l’anno successivo, avesse edificato la fortezza di Kronstadt sull’isola di Kotlin. Carlo concesse a Pietro il tempo di riorganizzare quell’esercito che a Narva aveva battuto. Confidava nella modernità della propria armata. E, nel gennaio del 1708, guidò i suoi soldati in quella che considerava l’offensiva finale e definitiva contro la Russia. Pensava di cavarsela in poche settimane, come tutti i condottieri che si lanciano in grandi avventure. Ma non fu così. Si fece intrappolare per un anno e mezzo. Finché, nel luglio del 1709, conobbe a Poltava una sconfitta devastante. Questa sì, definitiva.
L’errore fondamentale Carlo lo aveva compiuto il 15 settembre del 1708 (otto mesi dopo l’inizio dell’offensiva e dieci prima della definitiva disfatta, più o meno a metà tragitto). La guerriglia di Pietro che si era sempre sottratto allo scontro decisivo — scrive Simon Sebag Montefiore in Romanov 1613-1918 (Mondadori) — aveva snervato il re svedese. Avrebbe dovuto decidere, quel giorno, di puntare su Mosca e sfidare lo zar in modo che non si potesse sottrarre. Decise invece di dirigersi verso le fertili steppe dell’Ucraina per rimettere in sesto le sue truppe e attendere l’arrivo dalla Livonia del generale Adam Löwenhaupt che era lontano centocinquanta chilometri e si era impegnato a portargli dodicimila uomini ben riposati, pronti alla battaglia. Ma i russi diedero del filo da torcere a Löwenhaupt che si presentò all’appuntamento in ritardo, con un contingente dimezzato, affamato e con il morale a pezzi.
Ma la cosa peggiore fu che il russo Mensikov giunse per primo a Baturin la città chiave dell’Ucraina, la diede alle fiamme e sterminò gran parte dei suoi diecimila abitanti. Quasi tutti. Tant’è che, riferisce Montefiore, gli archeologi continuano a portare alla luce gli scheletri di quei defunti. In quel preciso frangente Pietro decise che l’Ucraina sarebbe appartenuta alla Russia per il resto dei giorni. E pose le basi per un sentimento che orienta ancora oggi alcune scelte fondamentali della Russia. Tanto più che, sottolinea Santangelo, in quell’occasione il popolo ucraino non si sollevò contro lo zar.
E venne la battaglia, decisiva, di Poltava (8 luglio 1709). L’esito era incerto ma accadde qualcosa che ha dell’incredibile. Racconta Serge Andolenko in Storia dell’esercito russo da Pietro il Grande all’Armata Rossa (Odoya): «Una pallottola colpisce una stanga della barella di Carlo; il re cade a terra e perde conoscenza». In un istante la falsa notizia della morte del re si propaga fra i soldati svedesi. I quali all’improvviso si sfaldano e cedono terreno. Il re riprende i sensi, capisce immediatamente quel che sta accadendo e incita i suoi a riprendere il combattimento. Invano. Le sorti del conflitto, scrive Andolenko ormai «sono decise». Riferisce Gustav Adlerfeld, lo storiografo di Carlo XII presente a ogni scontro in Russia, che il resto della battaglia fu «mero inseguimento e massacro degli svedesi» I quali contarono quasi settemila morti e contemporaneamente tremila di loro furono fatti prigionieri. I morti russi furono appena 1.345. Nel disastro militare di Poltava, afferma lo studioso, fu «spazzato via» il «miglior esercito mai messo in campo». Quello, appunto, di Carlo XII.
Pietro quasi incredulo comunica al principe Romodanovskij: «L’intero esercito nemico è finito come Fetonte». Cioè come quel personaggio della mitologia greca che condusse il suo carro tanto in alto e con tale velocità nel cielo che esso andò in fiamme. Un’evidente irrisione dell’eccesso di ambizione di Carlo. Il quale Carlo con l’alleato cosacco Ivan Mazeppa riesce a riparare in Moldavia nella città di Bender che appartiene al sultano ottomano Ahmed III. Di lì il monarca svedese assiste alla crisi dell’impero che aveva edificato nonché alla rivincita dei suoi nemici. Il regno di Danimarca-Norvegia scende in guerra contro la Svezia e si riprende la Scania. Augusto II rientra in Polonia e riconquista il trono cacciando l’usurpatore filo-svedese.
Re Carlo dal suo esilio a Bender supplica l’amico sultano di scendere in guerra contro lo zar cercando (a ragione) di convincerlo che «una Russia troppo potente prima o poi sarebbe tornata a occuparsi del fronte ottomano». Ci riesce grazie ai buoni uffici del khan di Crimea, Devlet II Giray. Ahmed III affida una missione militare contro la Russia al gran visir Baltaci Mehmet Pascià, che sul fiume Prut sconfigge un’armata di Pietro il Grande.
Carlo a questo punto si illude e pensa sia vicino il momento della rivincita. Ma il visir ottomano non ha alcuna intenzione di continuare a battersi per il re di Svezia: firma un trattato di pace che prevede la restituzione della fortezza di Azov nonché lo smantellamento di una serie di fortificazioni di confine. E smette di combattere. Re Carlo lo accusa di essersi fatto corrompere dai russi, ottiene addirittura dal sultano che il gran visir sia allontanato. Senza che, però, venga ripresa la guerra contro i russi. Carlo torna a scalpitare, protesta, leva sempre più la voce. Finché il sultano (nel febbraio del 1713) lo accusa di essere molesto, insolente e lo fa imprigionare nel castello di Timurtas. Dopo un anno e mezzo lo libera e gli concede di fuggire travestito da ufficiale tedesco (settembre 1714). Dopo due mesi di peregrinazioni, Carlo riesce a tornare in patria dove si reinsedia sul trono. Ma adesso deve affrontare gli antichi nemici ringalluzziti. Nel 1715 Prussia e Hannover dichiarano guerra alla Svezia, ma la marina britannica non corre, come sarebbe tenuta, in suo aiuto. Il sovrano non si perde d’animo. Nell’estate del 1718 rimette insieme un esercito grande come quello con cui aveva attaccato la Russia. Prima di sfidare lo zar vuole però piegare la Norvegia. Per dar prova di essere tornato quello di una volta, va lui stesso in ispezione nelle trincee. Gli ufficiali lo mettono in guardia da quel comportamento temerario. Lui li rassicura. Ma, alla prima ispezione, un colpo di moschetto lo colpisce alla testa. Il re muore all’istante. Gli svedesi, scrive Santangelo, vanno nel panico, lasciano in tutta fretta la Norvegia e tornano in patria «sotto una terrificante tempesta di neve, lasciandosi dietro molti morti, feriti e congelati». Straziati dall’inverno norvegese, anziché da quello russo. Ma la lezione (per i suoi successori, Napoleone e Hitler) è o dovrebbe essere la stessa.
Alla tragica uscita di scena di Carlo XII si capì subito che l’impresa svedese avrebbe consegnato alla storia la grandezza dello zar Pietro, così come quella di Napoleone avrebbe esaltato la figura dello zar Alessandro I, e quella di Hitler avrebbe elevato Stalin a grande protagonista del Novecento. Alla morte di Pietro (1725), mette in risalto Roger Bartlett in Storia della Russia. Dalle origini agli anni di Putin (Mondadori), lo zar era stato capace di lasciare ai suoi successori un formidabile esercito moderno di duecentomila soldati. E aveva dimostrato al mondo, sottolinea Santangelo, «che non conveniva invadere la Russia a cuor leggero». Ma i passaggi di quella che è passata alla storia come la Grande guerra del Nord non furono adeguatamente studiati né da Napoleone, né da Hitler. I quali pagarono caro l’aver trascurato quel che capitò al loro predecessore di cento o duecento anni prima.