la Repubblica, 23 febbraio 2022
I fallimenti della crisi
Una storia di fallimenti: è questo ciò che rivela l’invasione/annessione di una parte (per il momento...) dell’Ucraina annunciata lunedì sera da Putin. Sia di fallimenti legati immediatamente alle vicende del Paese aggressore, sia di fallimenti che riguardano invece il contesto più ampio che fa da contorno a tali vicende, il contesto al quale queste più o meno immediatamente rimandano o che da queste è influenzato. C’è innanzi tutto il fallimento della Russia come società moderna.
C ioè come società capace di avviare un processo di crescita economica fondata sul progresso tecnico, sull’industria e su meccanismi di mercato. Quel che insomma è riuscito a Pechino non è riuscito a Mosca (che per la verità non sembra neppure averci provato). Dopo ben trent’anni dalla fine del comunismo la Russia è rimasta una specie di Arabia Saudita alle porte dell’Europa: capace solo di esportare le sue enormi riserve di materie prime a cominciare dal gas. Ma per il resto, al di là dei missili e dei carri armati, essa non è in grado di produrre nulla che possa competere con una qualsiasi produzione tecnologica moderna. Sugli scaffali dei nostri negozi non c’è un solo manufatto «made in Russia». Di conseguenza la sola grandezza a cui Mosca può aspirare è ancora e sempre la grandezza militar-territoriale affidata a una spinta espansionistica continua. L’unico ruolo internazionale del Cremlino non può che essere affidato al potere delle armi e al ricatto dell’interruzione delle forniture. Quanto alla ricerca del consenso all’interno del Paese, anche qui il Cremlino non può che contare su una sola ideologia: quella di tipo nazional-imperialistico con la sua ovvia appendice di una paranoica ossessione per la sicurezza. Più o meno come al tempo degli zar e di Stalin.
Il secondo fallimento riguarda tanto per cambiare l’Unione Europea. Per decenni la sua classe dirigente cristiano-socialdemocratica, immersa nella propria utopia irenico-mercantile, ha considerato frutto di antiquate fantasie sovraniste e stataliste, se non guerrafondaie, ogni preoccupazione riguardante l’autonomia economico-strategica del Continente. Fino ad oggi mai quella classe dirigente è stata sfiorata dall’idea, ad esempio, che dover importare mascherine sanitarie, microchip o gas da Paesi collocati fuori dall’Unione potesse costituire un problema per l’economia e dunque per l’autonomia politica dell’Unione stessa. Si è cullata nell’illusione che tanto eravamo ormai entrati nell’era della «cooperazione internazionale» e che quindi l’idea di sovranità (anche della propria!) fosse una roba vecchia, per giunta pericolosa e di cui bisognava solo disfarsi al più presto. Abbiamo così rinunciato – ad esempio l’Italia per prima – a immaginare qualunque programma di indipendenza energetica da Mosca finendo per dipendere in misura decisiva dal suo buon volere. Negativamente esemplare in questo senso il ruolo della Germania. Pur volendo essere il cuore pulsante e il cervello direttivo dell’Unione – e perciò in teoria della sua autonoma identità, della sua piena libertà di movimento – in realtà essa non è mai riuscita a liberarsi della tentazione di una «relazione speciale» con la Russia che caratterizza la sua intera storia unitaria. Il gasdotto Nord Stream che collega direttamente i giacimenti di gas russo al territorio tedesco lo dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio.
E tra i fallimenti di cui ci parlano gli eventi dell’Ucraina c’è infine quello forse maggiore di tutti – annunziato certamente da tempo e da molti altri segnali ma non per questo meno clamorosamente evidente oggi: il fallimento della globalizzazione come realtà e come ideologia. E anche se qualcuno dirà che non di fallimento si tratta ma di crisi, i fatti restano e sono più duri delle parole. Proprio i fatti ci dicono dunque che la pratica di un grande mercato mondiale delle merci, ispirato unicamente al principio della concorrenza e regolato dalla domanda e dall’offerta – questo è la globalizzazione – sta conoscendo un numero crescente di smentite. Quando infatti si deve constatare, come oggi dobbiamo constatare, che la merce «energia» – cioè la merce essenziale per produrre tutte le altre merci – è in realtà una merce la cui disponibilità e il cui prezzo sono legati in misura decisiva a ragioni politiche, cioè a ragioni connesse alla gestione della sovranità da parte dei singoli Stati, che cosa rimane della globalizzazione? Che cosa rimane della globalizzazione se la Russia può ricattarci a suo piacere chiudendo o aprendo il rubinetto del gas? E che cosa rimane dell’internazionalismo di marca liberista che è l’anima ideale della globalizzazione quando come accade oggi siamo costretti a prendere atto che non è vero che per noi è indifferente se un giacimento di litio si trova in Cina o in Nevada? O per dirne un’altra che solo un anno fa per noi italiani non era per nulla indifferente se una fabbrica di mascherine sanitarie o di ventilatori per la respirazione si trovasse qui da noi o altrove?
Nessuno sa come andrà a finire lo scontro odierno tra la Russia e l’Occidente. Possiamo però cercare di trarne almeno le lezioni del caso: in futuro, nel rapporto con il mondo, più realismo e meno astrattezze ideologiche, per piacere; più attenzione ai rapporti di forza e meno illusioni buoniste.