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 2022  febbraio 23 Mercoledì calendario

Intervista a Nino D’Angelo

Estate 1985, Londra. Un gruppo di studenti valtellinesi, desiderosi di cibo vero, afflitti e stremati da giorni di agnello alla menta e pasticcio di rognone, è accolto dal gestore napoletano di una pizzeria con un accorato: “Ma voi che venite dall’Italia, è vero che Nino D’Angelo è morto in u  n incidente in motorino?”. La risposta a questa leggenda parte metropolitana e partenopea sta nel tour che Nino D’Angelo ha messo in piedi per il quarantennale del suo personaggio dello scugnizzo, il ragazzino col caschetto biondo ‘Nu jeans e ‘na maglietta che sfrecciava proprio in scooter per Napoli cantando l’amore per le ragazze e il calcio, soprattutto dopo l’arrivo di Maradona. A marzo si parte il 3 da Pescara per toccare tra l’altro Palermo (9), Torino (18), Roma (27) e ad aprile Napoli (9), Milano (11) per chiudere a Parma il 7 maggio.
D’Angelo, altro che morte nel 1985: il caschetto biondo un po’ è cascato e un po’ si è incanutito, ma lei è sempre qui e anche se di anni ne ha quasi 65 continua a sentirsi come quel ragazzino di allora.
«Beh no, per fortuna sono cambiato, altrimenti sarebbe ben triste. Ma certo quel ragazzino mi sta molto simpatico per la sua leggerezza, la sua felicità, anche la sua povertà. E non sa quante leggende tipo quella londinese giravano: ogni due per tre venivo dato per morto. Forse mi hanno allungato la vita. Di sicuro io ricomincio a vivere adesso, con questo tour».
Fa male cancellare tutto e stare a casa in lockdown, vero?
«Una cosa esagerata, non ho mai aspettato di cantare come in questo momento, il pubblico è una droga, anche più di quanto pensassi. Il palco è come l’aria, il vaccino che ti leva la malattia. Io sono stato abituato a girare, muovermi, recitare, cantare. Il mio lavoro è tutto, la mia vita. Se e quando mi ritirerò farò come quegli operai che vanno in pensione dopo 50 anni di lavoro, ma che già passate le prime 2-3 settimane si ritrovano a guardare i cantieri con gli altri vecchietti.
Comedite, umarell, giusto?».
Giusto. Ma allora lei sa parlare.
Glielo chiediamo perché il tour si intitola “Il poeta che non sa parlare”, come la sua divertente autobiografia, edita da Baldini+ Castoldi.
«Nel libro spiego questo soprannome: me lo diede la professoressa di italiano delle medie. A scuola parlavo napoletano, non italiano, facevo errori grammaticali, ma secondo lei scrivevo cose profonde, capaci comunque di arrivare al cuore.
All’inizio mi parve una cosa brutta, in realtà era un magnifico complimento. Trasformerò tutto in uno spettacolo di teatro canzone alla Giorgio Gaber, raccontandomi grazie alle mie canzoni».
Ma quali canzoni? Ovvero, con una carriera così lunga come fa a sceglierle?
«Facile: non ci pensi, perché sai che comunque qualcuno scontenti se non fai un concerto di otto ore. Poi vai di equilibrio tra anni Ottanta, Novanta e Duemila. Di sicuro il periodo dello scugnizzo non può mancare mai, e non solo perché questo è un tour celebrativo: quelle sono le mie origini, lì c’è la mia povertà, che non rimpiango, ma neppure rinnego perché mi bastava poco per essere felice, E poi quelle canzoni furono davvero una rivoluzione».
Addirittura?
«Lei non è napoletano, vero?».
Non esattamente.
«Allora non può capire. Ma le spiego. Io dovevo essere, per sua stessa dichiarazione, l’erede di Mario Merola nella sceneggiata napoletana. Grandioso artista, grandioso genere, ma io volevo fare il pop. E le mie canzoni del periodo scugnizzo hanno portato i giovani napoletani ad amare la canzone della loro città. Le scrivevo mentre mia moglie faceva le pulizie per casa. Le dissi: “Che fortuna che hai, ti ho risolto i problemi con queste musiche”. Anche se non fu facile».
Perché?
«Perché ero ostracizzato. Tanti prendevano posizione contro di me per pregiudizio, perché ero come mi vedevano. Io sono stato amatissimo da un certo pubblico e odiatissimo da quest’altro, che poi è passato ad amarmi quando c’è stata la mia rivalutazione. Ma spesso in Italia alla lunga si viene rivalutati. Io volevo essere amato da tutti, essere figlio di tutta Napoli, invece mi dicevano “di una certa Napoli”. Questo è stato per tanto tempo il mio errore, che mi ha buttato in depressione, ma dico sul serio. Invece alla lunga ho avuto ragione io: ha cominciato a cambiare tutto quando sono andato a Sanremo con Senza giacca e cravatta. E ora ho un pubblico composito, il minimo del colto accanto al massimo del colto. E sono felice».
A proposito di felicità, qual è stato il suo momento più alto, nella sua vita artistica?
«Il concerto per i 60 anni allo stadio San Paolo. Mi è passata tutta la vita davanti agli occhi. Ed ero nella curva B, la mia curva, quella dove andavo a tifare Maradona. Uno che ha pagato i suoi errori con la vita, un campione, ma umile come me.
Ecco, ovviamente non oso per nulla accostare il mio talento al suo, ma lui ci ha messo sempre la faccia, Come ho fatto e faccio io».