Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  febbraio 23 Mercoledì calendario

L’Italia appesa al tubo del Tap


MELENDUGNO (LECCE) – Questa spiaggia è stato il più grande cortile italiano, la più rumorosa battaglia dei Nimby ( Not in my backyard, non nel mio cortile) di casa nostra. Oggi, questa stessa spiaggia, è diventata una sorta di salvagente solido e gonfio, ma evidentemente troppo piccolo per poter far aggrappare tutte le nostre fabbriche, le nostre bollette, le nostre tasche. Questa spiaggia, dunque, è un po’ il simbolo di un cortocircuito tutto italiano, «si dà ragione all’ultimo che passa» dice Enzo, il barista, e forse ha ragione: «Dicevano che era la fine di tutto. E ora, invece, è l’unica cosa che ci resta. Non ci sto capendo niente».
Melendugno, Puglia. Inverno 2022. Qui arriva il gasdotto Tap, il tubo che taglia l’Europa da Est e dall’Azerbaijan porta in Italia 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Erano circa il 10 per cento del nostro fabbisogno, ma già a gennaio – quando la guerra e dunque la crisi energetica ancora non è cominciata – i dati dicono che ha rappresentato il 14 per cento del nostro fabbisogno. Si tratta di un’opera mastodontica e assai contestata: per anni i movimenti ambientalisti e un pezzo di politica, i 5 Stelle in particolare, ne hanno fatto un simbolo dell’aggressione al territorio, della mancata concertazione con i cittadini e con gli enti locali, dell’ambiente calpestato in nome del profitto. «Chi stenderebbe mai un asciugamano sopra un gasdotto?» gridava il ministro 5 Stelle, Barbara Lezzi. Anche se sarà poi un governo a 5 Stelle, guidato da Giuseppe Conte, a vedere l’apertura dell’opera: è finita con gli attivisti no Tap che bruciavano le bandiere dei 5 Stelle sulla spiaggia. E la spiaggia che quest’estate era piena di asciugamani, come non mai.
È passato più di un anno. E da qualche settimana la parola Tap è tornata sulle bocche della politica, con frequenza. L’opera, si diceva, si è rivelata assolutamente strategica. Perché trasporta gas che non arriva dalla Russia, e arriva sul mercato a un prezzo assai competitivo. Non ci salva, come qualcuno dice. Ma sicuramente ci sta dando una grossa mano. Tanto che sul tavolo – e questa è la novità – c’è la possibilità di un raddoppio. «Tap attualmente ha una capacità di trasporto di dieci miliardi di metri cubi ma è progettato per portarne 20» spiega Luca Schieppati, managing director dell’azienda. Significa che l’Italia potrebbe avere il doppio del gas attuale. Ma non subito: servono, dicono da Tap, altri quattro anni per poter realizzare delle opere dall’altra parte del Mediterraneo, tra Albania e Grecia.
«Dovremmo provare a fare prima», ha già detto la politica, anche quella locale, vittima evidentemente del cortocircuito di cui parlava Enzo, il barista. Perché il passato lo trattano come fosse il tubo – c’è ma non si vede, appunto – ma resta. E qualcuno non ha alcuna voglia di dimenticarlo. Il sindaco, Marco Potì, che ha portato fino alla fine la bandiera della rivolta, accusando di tradimento i 5 Stelle, non si pente di nulla. «La situazione in cui ci troviamo, le bollette testimoniano che avevamo ragione: il gasdotto non serviva». Come non serviva? «I numeri sono troppo bassi, secondo noi quel gas non va oltre la provincia di Brindisi, un’opera mastodontica di questo tipo non ha portato benefici. Ma solo danni». I comitati citano le imputazioni per cui alcuni ex manager di Tap sono sotto processo a Lecce – inquinamento della falda e altri reati ambientali minori – e anche le 67 condanne che hanno riguardato i loro attivisti, per i disordini tra il 2017 e il 2019.
Ma questi argomenti sembrano vecchi di secoli, al momento. Il dibattito è altrove. C’è la questione del raddoppio, che – rassicura l’azienda – «non comporterebbe alcun lavoro di tipo infrastrutturale, specie in Italia». Mentre in consiglio regionale hanno posto la questione ristori. O meglio, come ci tiene a chiamarli Tap, «investimenti sociali per il territorio». Quando il progetto era partito erano stati assicurati rimborsi per chi subiva danni: proprietari di fondi, strade eccetera. Gli ulivi espiantati, per esempio, sono stati rimessi al loro posto, e in un certo senso è stata una fortuna: perché mentre si protestava, c’era la xylella che si mangiava tutto, e così ora gli ulivi di Tap sono gli unici verdi. C’è però altro: l’azienda aveva messo sul piatto 50 milioni di euro per progetti da destinare alle comunità. Al principio c’era chi aveva gridato allo scandalo, i sindaci avevano difficoltà a sedersi ai tavoli con l’azienda perché i cittadini gridavano: «Venduti, venduti». Alla fine i soldi sono stati utilizzati soltanto in piccola parte, ma ora in consiglio regionale c’è chi quei fondi li reclama, anche se da 50 sono diventati 25 perché «le condizioni sono cambiate».
La spiaggia, ora, è vuota. O quasi. Peppe ha 45 anni, è venuto dalla provincia di Taranto e dice che l’oro vero, qui, è quello che c’è sopra e non quello che c’è sotto. «Il vento è speciale, mi fa volare», sorride mentre mette a posto la tavola da surf, i piedi sporchi di sabbia, i capelli ingrigiti dalla salsedine. A Melendugno, d’altronde, ognuno ha il suo cortile.