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 2022  febbraio 23 Mercoledì calendario

Una nuova traduzione di Arancia meccanica

Un bravo regista sa sempre dove mettere la macchina da presa. Uno che volesse confezionare un remake di Arancia meccanica, a mezzo secolo dal primo, forse potrebbe tentare un’inquadratura in soggettiva dal livello di un marciapiede, verso la targa di un’auto di grossa cilindrata che fugge. L’uomo a terra potrebbe giacere a poca distanza da un’auto ben più piccola, la propria, con il lunotto esploso in un milione di schegge, e intorno a lui ci sarebbero frammenti polverizzati di quello che fino a trenta secondi prima era il suo telefono cellulare. Sono le 17.30 circa del giorno di San Valentino. Lunedì, pomeriggio di traffico pesante alla periferia nordovest della città di Milano. 
L’uomo ha appena commesso due errori. Il primo, di hybris: pensare di ribellarsi a una prepotenza stradale, avvenuta poco prima, all’uscita dell’autostrada. Incalzato ai 140 e poi superato a destra, schiacciato fra un autotreno e il guardrail, si è agitato, spaventato perfino. Però, se poi quella stessa auto l’ha reincontrata dopo, al primo semaforo fuori dalla tangenziale, mai e poi mai doveva scendere a chiedere spiegazioni. Quello è il primo errore, perché da quell’abitacolo sono saltati fuori un paio di energumeni molto eccitati. Il secondo errore dell’uomo, di fronte alle ingiurie e alle minacce, è stato quello di evocare l’autorità. Alla parola Carabinieri o Polizia, i drughi hanno sfasciato tutto.
Sì, drughi. È il termine della neolingua che Anthony Burgess mise in bocca ai teppisti della sciagurata banda di Alex, protagonista del romanzo distopico Clockwork Orange (1962), tradotto come Arancia a orologeria e poi, in versione cinematografica, come Arancia meccanica, il film di Kubrick apparso in Italia nel 1972. Per l’anniversario dei cinquant’anni (60 del libro) è appena uscita la nuova versione italiana di Arancia meccanica (Einaudi, a cura di Andrew Biswell, prefazione di Martin Amis, pagg. 280, euro 12) nella nuova impegnativa traduzione di Marco Rossari.
Il gergo cambia con i tempi, la lingua d’invenzione di Burgess, il nadsat, non è stata adottata, né il suo futuro si è avverato (non aveva previsto la rivoluzione digitale), se non per un aspetto: la violenza. Non li vogliamo chiamare drughi? Cerchiamo un’altra parola. 
In una intervista di pochi giorni fa al Daily Express Malcom McDowell ha rievocato il suo incontro con Stanley Kubrick, il confronto fra loro per la definizione del personaggio, del suo modo di muoversi e di vestire, che fu l’attore a proporre, presentandosi con quell’iconico è inquietante sospensorio abbinato alla bombetta da gentleman inglese della city. Oggi ci sono altri codici d’abbigliamento, dettati dalla moda. I sopraffattori portano vestiti di marca, scarpe costose, posseggono accessori di lusso, telefonini e auto con tutti gli optional. Se non li posseggono, li rubano.
Ma dopo mezzo secolo, la violenza, anzi la ultraviolenza urbana per bande è ancora lì. Basta leggere le cronache di questi giorni, per esempio a Milano. Le violenze di Capodanno. Le sparatorie fra rapper spacciatori, l’ondata di risse e accoltellamento fra giovinastri dentro la movida milanese. Che cos’hanno in comune? Il disagio sociale, l’appartenenza a ceti sfortunati, il conformismo a modelli bestiali? No: l’indifferenza dei passanti. Quella, nella visione di Burgess e di Kubrick, non era contemplata. I delitti avvenivano senza testimoni. Oggi accadono davanti a un pubblico che magari filma, ma subito volta la schiena. 
Torniamo all’uomo di prima. I drughi di Quarto Oggiaro non ascoltavano Beethoven. Forse erano infatuati della techno. O forse dei neomelodici, magari avevano l’abitacolo pregno degli aromi recenti di Sanremo. Beethoven no di certo. Non avevano consumato il molocco, il latte corretto con sostanze stupefacenti. È molto probabile che di stupefacenti ne avessero assunti sì, ma per via nasale. La cocaina è il combustibile più diffuso e a portata di mano per eccitare lo spirito a credersi invincibile, e dunque il soggetto a ritenersi impunibile.
L’uomo all’incrocio fra via Castellammare e via Eritrea, nel cuore di un quartiere la cui reputazione è nota non a suo vantaggio (a discapito delle persone oneste che pur ci sono, e che ne subiscono l’onta), quell’uomo, dunque, pensava che mostrandosi non belligerante avrebbe avuto sostegno esterno. Qualcuno sarebbe sceso dalla bolla della propria auto e gli avrebbe prestato soccorso. Non è stato così. Pare che a immischiarsi si tema assai piú di aver sfregiata la carrozzeria che di aver sporcata la coscienza. Unico a fermarsi, un tassista.
E guai a invocare la legge, il principio di autorità, le forze dell’ordine. Si scatena l’odio. La Polizia arriva subito. Loro, riferito il numero di targa, sanno tutto. Compilano verbali e raccolgono denunce con precisione e pazienza encomiabili. L’ispettore, nel suo ufficio di quella sciagurata periferia, ha una parete tappezzata di certificati di elogio. Ma non è una caricatura dell’autorità, come lo vedi nella pellicola del regista nato americano, poi divenuto inglese. Lui parla poco, ma la sa lunga. Solo che non promette niente. 
L’ultraviolento, il fanatico dell’horrorshow, ha dalla sua un’altra carta da giocare. Un’alta probabilità di farla franca. I fratelli di Alex, nella fiction, diventano essi stessi poliziotti, per paradosso. Lui, che pure paga, esce di galera solo quando gli è stata estirpata la capacità di scelta tra il bene e il male. Quando è stato rieducato a forza. Quando, in altre parole, non è più un uomo. Il libero arbitrio gli è sottratto, organicamente la violenza gli dà nausea. Cerca perfino di uccidersi. Guarito dalla cura, torna malvagio come prima. Il gene del male compie la sua devastazione, non saranno gli apprendisti stregoni a costruire una società depurata dalla cattiveria, dalla ferocia, dalla frustrazione.
Infine, quel tizio aggredito e danneggiato in mezzo alla strada affollata di testimoni che si sono dissolti dopo una rapida, ghiotta visione, magari godendo dentro di sé del privilegio di averla scampata, è colui che vi scrive. Ma questa è tutta un’altra storia.