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 2022  febbraio 23 Mercoledì calendario

L’ultima opera di Vitaliano Trevisan

Dovevo arrivarci prima a capire il valore di Vitaliano Trevisan. Dovevo arrivarci prima che si uccidesse il 7 gennaio scorso. Se non fossi intransigente quasi come lui (sottolineo il quasi) forse ci sarei arrivato nel 2016, quando Works venne pubblicato per la prima volta: ma non leggevo e non leggo libri italiani dal titolo in inglese, non leggevo e non leggo libri di 656 pagine. Ogni regola prevede l’eccezione, purtroppo sei anni fa non ritenni fosse il caso di farne una. Oggi, dopo un suicidio che profuma di stoicismo, l’eccezione l’ho fatta e Works. Edizione ampliata (Einaudi) l’ho letto, sebbene le pagine siano nel frattempo addirittura aumentate a causa di un testo inedito talmente bello che da solo vale il prezzo del grosso volume.
«Dove tutto ebbe inizio», così si intitola il chiamiamolo poscritto, parla non certo a caso di suicidio, con parole prossime a quelle che sul medesimo argomento pronunciò Cioran: «Il bene più prezioso su cui l’essere umano può contare, ciò che davvero lo distingue dall’animale, è la possibilità di sottrarsi al mondo in ogni momento attraverso il suicidio».
Come mai Trevisan (mi raccomando l’accentazione veneta, Trevisàn) odiava così tanto la vita? Alla base c’era senz’altro una notevole misantropia, l’incapacità di sopportare «quel mondo umano che abbiamo imparato molto presto a detestare, e sempre più abbiamo detestato e detestiamo». Un’avversione che il lettore intuisce immediatamente come vera, che non ha nulla della posa. Lo scrittore vicentino è stato avvicinato, per asocialità e fraseggio, a Thomas Bernhard (Franco Cordelli sul Corriere si spinse a parlare di «calco»). Con il suicidio, nella modalità della volontaria overdose di farmaci, finalmente se ne è allontanato. Perché lo scrittore austriaco non è stato altrettanto radicale, non ha tratto così acute conseguenze dal suo pessimismo cronico: è morto anch’egli prematuramente e però di malattia. Altro che calco, di fronte a «Dove tutto ebbe inizio» e all’intero Works l’atteggiato, il finto sembra Bernhard.
Di Trevisan colpisce l’estrema serietà e il pagare di persona l’alto prezzo delle proprie scelte, la prima delle quali fu lo scrivere soltanto libri, escludendo i giornali e le scuole di scrittura dal novero delle possibili fonti di reddito. Scelte da ricco di famiglia, solo che lui di famiglia era povero. La madre, operaia, per recarsi al lavoro «si faceva ogni giorno una ventina di chilometri in bicicletta, dieci ad andare e dieci a tornare, da sola, in piena notte, o la mattina presto, a seconda del turno, estate e inverno, sotto il sole, l’acqua o la neve». Anche il figlio ha fatto l’operaio, oltre che il gelataio e il magazziniere e altri lavori anche migliori e meglio pagati, però subito persi per l’intransigenza e la misantropia di cui sopra. Ce la metteva tutta e più ce la metteva più litigava, con superiori, inferiori e pari grado.
Works è un’autobiografia lavorativa che fa passare la voglia di lavorare o almeno di lavorare nelle aziende, i cui meccanismi gerarchici sono mostrati nella loro devastante tossicità, meccanismi nocivi per i dipendenti, i dirigenti, i titolari, per tutti, siccome il conformismo impedisce l’innovazione oggi più indispensabile che mai. Certe aziende non sembrano esistere per generare profitti, ma per stipendiare caporali, e anche le «cooperative cosiddette sociali» ci fanno una schifosa figura, leggasi a tal proposito il capitolo «Quarto paesaggio?» (Works in teoria si può leggere un capitolo sì e l’altro no, un lavoro sì e l’altro no, anche per risparmiarsi un duecento-trecento pagine: in pratica la scrittura ipnotica ti trascina a leggere tutto).
Non era ricco di famiglia, Trevisan, non aveva un lavoro redditizio e dunque non solo la misantropia, anche l’economia deve aver contribuito a fiaccarlo. Parla molto spesso di soldi nelle tante (ma non troppe, adesso posso dirlo) pagine del libro, e quasi sempre del loro scarseggiare. Soffriva «la condizione di notorietà senza successo, nel senso di successo di vendite» e dunque l’impossibilità di vivere, anche molto spartanamente, di letteratura. L’angoscia aumenta e così mi metto a far di conto: quanto potrò resistere con il poco che ho messo da parte?, e, una volta finite le riserve, quando non sarò più in grado di pagare le bollette, quanto resisterò asserragliato in casa dopo che mi avranno tagliato luce acqua e gas?».
Adesso però non vorrei dare l’idea che Works si riduca a temi pur importanti quali il lavoro e la perdita del lavoro, i soldi e la mancanza dei soldi, e allora devo ricordare il puro piacere estetico garantito dalla prosa fra le più belle degli ultimi decenni, vero ingrediente fondamentale del libro. (Dovevo arrivarci prima, ma comunque ci sono arrivato: Works è un capolavoro).