Agrifoglio, 22 febbraio 2022
L’ossessione per il bio migliora l’agricoltura?
Lo sapete che sono tra noi, sì? Che li incontriamo durante l’apericena e robe simili? Parlo di quei cittadini che ti dicono: io compro bio. E di quegli altri che vanno oltre il bio, che sono biodinamici.
Non sono mostri, né zombi, né cittadini particolarmente problematici, almeno non più di me. Sono persone convinte, come me, che bisogna impattare di meno, come si dice in questi tempi anche se il termine è brutto e soprattutto risulta di difficile definizione.
Loro dicono: il glifosato fa male, il corno letame non fa niente, quindi perché non provarlo? È una classica euristica: almeno male non fa, e dunque se il biodinamico si basa (pur solo per tradizione) sul corno letame, per associazione tutta la pratica agricola biodinamica male non fa, e se non fa male allora fa bene, perché non provarla?
Tanto per restare in tema, dobbiamo dire che sono anche convinti, ma solo alcuni ovvio, che esistono erbicidi biodinamici che in qualche modo (altro termine di moda) riescono a dissuadere le erbe infestanti.
Ma ci rendiamo conto che con questa convinzione in testa non c’è analisi e dibattito che tenga?
Anzi, in questo modo la proposta ragionevole e logica di “studiare per capire se il glifosato fa male o no”, ecco proprio quella proposta diventa una prova a carico dell’erbicida. Insomma, siamo di fronte a un’altra euristica: se è tanto studiato allora c’è qualcosa sotto. E via via: i poteri forti, le multinazionali etc etc... Il grande contro il piccolo (che poi, si fa per dire piccolo...avessero i ricercatori pubblici il fatturato ad esempio di Demetra).
Ora, in base a tutto quello che so, che ho imparato sul campo, in base al sacrosanto metodo scientifico e pure grazie un po’ di cazzima (temine mai fuori moda), se quelli come me si confrontano con quelli che amano il biodinamico, (ma anche il bio), 7 volte su 10 finisce a male parole, litigio, urla e altre cose spiacevoli. Le altre 3 volte rimanenti, anche perché magari ho preso parecchi tranquillanti prima, si riesce a costruire un ponte e si instaura un minimo di comunicazione tra cittadini: un evento lieto.
Ed è proprio durante questi fortunati momenti che possiamo provare a spiegare che siamo tutti convinti degli obiettivi ma il problema è ancora sempre analizzare e testare gli strumenti che abbiamo a disposizione per impattare di meno. In questi momenti, siccome siamo uomini, non di mondo ma di campo sì, possiamo far valere le nostre ragioni e dichiarare a gran voce che per fortuna, e tranne spiacevoli casi, ormai tutta l’agricoltura è bio, ma sul serio.
Prendete un manuale del perito agrario o dell’agronomo degli anni ’70 e paragonatelo a uno odierno: è cambiata la chimica, sono cambiate le tecniche, stanno cambiando le trattrici, e riponiamo grandi speranze sulle biotecnologie: siano tutti bio, per fortuna, e aggiungerei: siamo i bio validati, non da Enti di certificazione ma dal metodo Scientifico, che è collettivo e spesso raggiunge risultati ottimi anche contro le nostre ipotesi di lavoro: siamo biodinamici, nel senso che ci diamo da fare, e dunque, ci costringe, se siamo forti e coraggiosi, veri scienziati insomma, a smentire quanto finora affermato.
Allora, visto le 7volte su 10 in cui la discussione degenera, visto che questa difficoltà non la provo solo io, ma è un ostacolo in cui inciampano un sacco di tecnici e ottimi divulgatori, forse il problema si deve, se non risolvere, perlomeno affrontare alla base: dobbiamo ammettere che non siamo noi i padroni del racconto. Lo storytelling lo fanno, appunto, quei cittadini che incontriamo durante l’apericena e ci dicono che loro sostengono il bio e il biodinamico e che il corno letame comunque ha valore perché affonda le radici in chissà quale tradizione.
E quando qualcuno detiene il primato dello storytelling poi vagli a spiegare l’assurdità della pratica esoterica, vagli a spiegare che ormai è difficile pure trovare le corna di vacca, perché quelli, forti dello storytelling, risponderanno: male non fa, quindi perché non provare?Sottintendendo che l’agricoltura convenzionale, ecco, quello, è il problema.
Riusciremo a prendere in mano il nostro destino? Ovvero il filo della narrazione per spiegare che il bio è dinamico, nell’accezione di cui sopra, se e solo se è figlio della ricerca scientifica e sperimenta e sottopone al vaglio della comunità scientifica i risultati in campo, altrimenti si infogna nella palude delle euristiche, che sì, sono efficaci ma spesso risultato statiche.
Ci riusciremo? Preventivamente, però. Per non arrivare esausti (e coraggiosamente) a convincere i parlamentari che magari alcuni di loro sono tra i primi a dire: vabbè male non fa. Ci riusciremo? Anche per non arrivare litigiosi o sotto sedativi all’apericena.