La Repubblica, 22 febbraio 2022
Intervista a Ai Weiwei
Il sole intenso del suo rifugio portoghese gli ricorda quello del deserto dei Gobi, dove ha trascorso l’infanzia, in esilio. Quando gli domando se questa è l’ultima tappa, se la sua anima si è definitivamente stabilita in questo paese rurale e tranquillo di cui apprezza l’arte di vivere, Ai Weiwei sorride: «Sono un viaggiatore perpetuo». La sua biografia, 1000 anni di gioie e dolori, iniziata nel 2011, mentre era in prigione, si legge come un’amara lettera d’amore per il suo paese, la Cina.
Il libro racconta prima di tutto la storia di suo padre, Ai Qing, poeta e intellettuale cinese. Perché questa scelta?
«Non si può capire la Cina senza conoscere la lotta della generazione di mio padre. Ho trascorso con lui i primi vent’anni della mia vita. Era un principe della poesia cinese, in cima alla lista dei milioni di intellettuali che, inviati da Mao nei campi di rieducazione, hanno subìto la rivoluzione culturale. La nostra condizione era difficile, vivevamo letteralmente dentro un buco scavato nella terra. Mio padre però è sempre stato calmo e pacifico, difendeva il suo senso estetico anche quando puliva le latrine del campo.
Mentre crescevo accanto a lui non me ne rendevo conto, l’ho capito solo scrivendo questo libro. Per me mio padre è un santo».
In queste pagine c’è molto amore per la Cina, malgrado tutto quello che lei e suo padre avete subìto ad opera del regime autoritario.
«Non capirò mai del tutto l’amore di mio padre per il suo Paese e i suoi abitanti, nonostante le punizioni e le umiliazioni che gli hanno inflitto.
Anche quando studiava a Parigi, era convinto di aiutare la Cina. Io lo ammiro e a volte mi vergogno di non essere come lui. Però amo profondamente il mio Paese e la sua cultura».
La storia si ripete. Nel 2011 lei è stato arrestato e incarcerato per ottantuno giorni. Come ha vissuto la prigionia?
«Sono stato rapito dallo Stato, una cosa al contempo ridicola e angosciante, ero completamente scollegato dal mondo. Non potevo chiamare il mio avvocato o i miei familiari per dire loro che ero vivo.
Quelli che mi hanno prelevato continuavano a dirmi che quando sarei uscito di là, dopo dieci o quindici anni, mio fig lio, che all’epoca aveva due anni, non mi avrebbe riconosciuto. Lì mi sono reso conto che non ero più solo e che la mia famiglia avrebbe pagato assieme a me le conseguenze delle mie azioni».
L’ha salvata la sua fama internazionale?
«Non so rispondere a questa domanda. Non si può sapere che cosa pensa di un individuo un regime autoritario. E la loro forza sta proprio nel non rivelarlo mai».
Se volesse, potrebbe tornare in Cina?
«Potrei. Ma mia madre, con cui parlo ogni giorno, mi dice: figlio mio, ti
voglio bene, ma non tornare».
Il boicottaggio diplomatico iniziato dagli Stati Uniti ha senso?
«È del tutto disconnesso dalla realtà.
Oggi l’Occidente tenta di salvare la faccia ma in passato non ha criticato abbastanza le violazioni dei diritti umani perpetrate dalla Cina. Le aziende americane ed europee, il mondo degli affari, le banche svizzere, dipendono tutti profondamente dall’accesso al mercato cinese. Nel frattempo, grazie al suo modello di capitalismo di Stato, molto più efficace nel prendere decisioni, la Cina è quasi riuscita a diventare la più grande potenza mondiale...».
Lei denuncia violazioni dei diritti umani anche in Occidente. Nel 2017 il suo documentario sui migranti, “Human Flow”, ha mostrato un lato molto oscuro della nostra società.
«Viviamo da decenni in un mondo senza guerra, in cui le libertà e la democrazia sono idealizzate. La storia però ci dimostra che ci sono sempre state guerre, carestie e migranti. E noi partecipiamo a queste catastrofi umanitarie. Per esempio quando vendiamo armi alle parti in conflitto. Molti paesi europei oggi respingono i rifugiati, anche se in passato a volte i loro cittadini si sono trovati nella stessa situazione. È la natura umana: egoista, mediocre e negligente. Nessuno vuole ammettere le proprie responsabilità».
Questo la fa arrabbiare?
«No, ma trovo molto frustrante vedere le condizioni di vita di quelle famiglie, di quei bambini che potrebbero essere figli nostri. Non sono ingenuo di fronte a quella realtà, mi sforzo di darle voce attraverso la mia arte».
La sua arte è eminentemente politica. Potrebbe essere altrimenti?
«È una questione filosofica. Ogni individuo è politico, se vive all’interno della società. Questo è vero anche per l’ambiente dell’arte: bisogna pensare a ciò che si vuole esprimere, a com e esprimerlo e a chi si desidera vendere la propria arte. È un processo politico in ogni sua fase.
Chi dice il contrario mente. La maggior parte delle mie opere è una dichiarazione politica esplicita e ne sono fiero. Non mi interessa sapere se la gente mi considera o meno un artista».
Eppure le sue opere sono quotate…
«Sono esposte nei musei più importanti. Rispetto ai grandi artisti contemporanei, però, sul mercato dell’arte ne vendo molto poche. Sono molto più popolare presso il grande pubblico. La gente mi ama perché con la mia arte do voce all’umanità, ne racconto gioie e dolori. Non sarei capace di dipingere una tela astratta di cui non si capisce quale sia il sopra e il sotto e farmi pagare milioni di dollari. Lo trovo discutibile».
Fotografia, pittura, scultura, video, lei si affida a molti supporti.
Cosa determina la sua scelta?
«La forza e la bellezza della vita sono imprevedibili. Tutti noi abbiamo curiosità, immaginazione, passione.
Non posso essere schiavo di un solo mezzo. Non sono io a scegliere, sono loro che scelgono me. Senza questa varietà di supporti sarei incompleto».
Il titolo della sua autobiografia è “1000 anni di gioie e dolori”. Qual è la gioia più grande della sua vita?
«Essere vivo (ci mostra la foto che usa come sfondo dello smartphone, ritrae il rifugio in cui ha vissuto con suo padre durante l’esilio, ndr ).
Quando guardo questa foto scuoto la testa e mi dico che è incredibile che io sia sopravvissuto».
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Traduzione di Alessandra Neve