La Stampa, 22 febbraio 2022
Caterpillar vuole produrre in Messico
Jesi (Ancona)
Cantano la loro rabbia in cerchio intorno ai bidoni di olio industriale riempiti di legna da ardere. Hanno una tenda e un gazebo con le panche di legno: «Un giorno all’improvviso, venni a sapere che, la fabbrica chiudeva...». Non è fiction, non è licenza poetica. È andata proprio così ai 230 della Caterpillar di Jesi, polo industriale di Ancona. Quel giorno, il 10 dicembre, lo racconta Tiziano Beldomenico, segretario della Fiom delle Marche: «Eravamo alla riunione semestrale con l’azienda. Pensavamo che avrebbero finalmente stabilizzato i precari. Da mesi i capi ci dicevano che i conti andavano bene e la qualità del prodotto era eccellente. È stata una doccia fredda». È successo quando Jean Mathieu Chatin, giovane manager di Grenoble, nuovo amministratore delegato della fabbrica di Jesi, ha detto semplicemente: «La capogruppo in America ha deciso un piano di razionalizzazione delle produzioni. I cilindri idraulici li faremo in altri stabilimenti. Entro tre mesi chiuderemo le linee. Ci impegniamo a trovare un acquirente. Il 23 febbraio scatteranno i licenziamenti».
Aveva provato, Chatin, a ripetere il concetto con un megafono davanti ai cancelli. Ci voleva coraggio, va ammesso: «La chiusura di questa fabbrica non è assolutamente un giudizio negativo verso il vostro lavoro e la qualità del prodotto», aveva tentato Jean Mathieu. Ma con scarso successo. «La gente ha cominciato a urlare contro di lui – ricordano oggi gli operai – la situazione stava diventando tesa. Presto è risalito in macchina».
Tutto era già stato deciso in sordina, a migliaia di chilometri di distanza. A fine novembre un gruppo di analisti si era riunito all’ultimo piano del palazzo di Waukegan road, a Deerfield, periferia nord di Chicago. Giornate fredde a poche centinaia di metri dalle rive del Michigan, quando l’acqua del lago comincia già a ghiacciare. Quel giorno gli analisti erano stati convincenti e i vertici di Caterpillar avevano scelto: Jesi rende ma altri stabilimenti rendono di più. Quella fabbrica va chiusa.
In quelle stesse settimane, finalmente, la compagna di Fabrizio, 35 anni, operaio specializzato, aveva preso una decisione importante: «Forse è meglio che mi trasferisca lì, a Jesi, dove lavori tu. Per il prossimo anno iscrivo i ragazzi alle scuole italiane». Lui ricorda quei giorni come fosse un’altra epoca. Dopo anni di convivenza a distanza, lui nelle Marche, lei in Svizzera, sembrava finire quella vita da separati in Europa. «È stata la prima cosa che ho pensato quando è finito lo strano comizio di Chatin: che il nostro progetto era a pezzi. Le ho telefonato: “Blocca tutte le pratiche per le scuole. Ci chiudono la fabbrica. Resta lì e vediamo che cosa fare"».
I Fabrizio di domani si chiamano Pedro, Luis, Manuel. Si sono spaccati la schiena per molti anni a coltivare mais sui terrazzamenti del Cerro San Rafael, la grande montagna che sovrasta Monterrey, zona industriale al confine tra il Messico e il Texas. Ovviamente dalla parte del Messico. Perché lì, avevano spiegato gli analisti nella riunione di Deerfield, «il costo del lavoro è inferiore del 20 per cento rispetto a quello di Jesi». I Pedro si accontentano e hanno ragione. Meglio i cilindri idraulici filettati del lavoro nelle terre strappate a fatica alla montagna o, peggio, delle miniere di rame nel Nuovo Leon. Ma come trasformare un contadino messicano in un metalmeccanico italiano? Semplice, con la realtà virtuale. Monterrey è una città che sta esplodendo da anni. La crescita della sua area industriale è tumultuosa. Tutti hanno fretta. Le fabbriche addestrano i contadini con i corsi in 3D prima ancora che arrivino i macchinari su cui lavoreranno, quando finalmente i cargo atterreranno sulla pista dell’aeroporto Mariano Escobedo, una striscia di asfalto fra i capannoni industriali. Da anni Caterpillar occupa uno di quei capannoni e da qui rifornisce il mercato statunitense con i camion che superano il confine a nord, verso Huston.
Ecco perché il cilindro idraulico filettato, per un secolo orgoglio dell’industria metalmeccanica jesina, diventa «una commodity». C’è proprio scritto così nella memoria difensiva con cui gli avvocati di Caterpillar spiegano al tribunale di Ancona la decisione di chiudere la fabbrica. A pagina 10 si legge che i cilindri «a seguito del rapido progresso tecnologico e di un esponenziale sviluppo delle capacità ingegneristiche dei fornitori terzi, sono diventati una commodity, ossia una merce… reperibile facilmente, e a prezzi notevolmente inferiori sul mercato». E poi chi usa più le grandi pale meccaniche in Europa? L’edilizia è quasi tutta restauro, le miniere di carbone sono in chiusura. Scelta ecologica, per carità: «Ma i macchinari che scavavano sotto terra utilizzavano molti cilindri e in certi casi, finito il lavoro, venivano interrati in fondo alle gallerie», ragiona Michele scaldandosi davanti al bidone del fuoco, di fronte ai cancelli. Decisione ambientalmente aberrante, quella di abbandonare le talpe meccaniche in fondo al tunnel, ma molto efficace per i fatturati e per i posti di lavoro. La transizione ecologica è anche questo. La produzione va dove ci sono i mercati e, per ora, dove il vecchio modello di sviluppo resiste. L’ambientalismo ha un prezzo anche sociale. Come dice il proverbio: hai voluto la bicicletta? Pedala.
Nel suo ufficio a palazzo Raffaello, sulla collina di Ancona, l’assessore Stefano Aguzzi (Forza Italia, corrente del lettone: «Sono un putiniano di ferro», scherza ma non troppo) spera di risolvere la grana Caterpillar. Quale effetto avrebbe la chiusura della fabbrica? «Un grave contraccolpo sociale. Non solo per i 190 dipendenti diretti e i 50 interinali. Ma per un indotto che coinvolge centinaia di famiglie. E poi non c’è solo questo. Ci sarebbe, molto grave, la ricaduta negativa di immagine sul territorio. Quella marchigiana è un’economia attiva, non è un posto da cui si scappa. Anche per questo ci stiamo attivando per trovare una soluzione».
Davanti ai cancelli di Jesi non tutti la pensano così. Dicono che la politica latita... «Non so a che cosa si riferiscano. Non mi sento per nulla latitante. Siamo anche riusciti a coinvolgere il Mise nonostante formalmente fossimo al di sotto del numero di esuberi previsti». Perché inseguendo il lavoro perduto nell’Italia del post-pandemia si scopre che c’è una pezzatura minima: sotto i 200 esuberi non si passa per la cruna del ministero. Alla Caterpillar sono riusciti a superare l’ostacolo coinvolgendo i 50 interinali. Proprio quelli che nelle crisi sono in fondo alla fila e che invece questa volta potrebbero essere decisivi. Come Alberto, 21 anni, diploma in ragioneria, mestiere verniciatore di cilindri. Che cosa c’entra il titolo di studio con la professione? «Niente. Lavoro qui per pagarmi l’università, scienze della comunicazione. Ero stato assunto da tre mesi. Ora ricomincia tutto da capo». Ha certamente più problemi Michele: «Con quattro figli e mille euro al mese di cassa integrazione non so come faremo a sopravvivere». Come ci riuscirete? «Ho fatto un discorso in casa. Siamo in difficoltà. Per un po’ risparmieremo sulle feste e sui compleanni».
Nelle ultime settimane tre società hanno manifestato un interesse a rilevare lo stabilimento di Jesi: il fondo Antares, la Duplomatic (una concorrente di Caterpillar nei cilindri idraulici) e una società del settore automotive, l’Imr di Carate Brianza. Ieri, nell’incontro al ministero, quello dell’Imr è stato scelto come progetto più credibile. Può partire la trattativa. E soprattutto si allungano di due settimane i tempi prima delle lettere di licenziamento. C’è bisogno di giorni per arrivare all’acquisto: «Se la Caterpillar non allunga i tempi – spiegavano nei giorni scorsi gli operai – non si capisce come si possa risolvere il problema. Nessuno compra un alloggio in dieci giorni. Figurarsi una fabbrica». E se fallisse la trattativa con Imr? «Allora – dice il sindacalista Beldomenico – diventeremo tutti dipendenti dell’Inps… a meno di mille euro di cassa integrazione al mese». —