La Stampa, 22 febbraio 2022
Gli schiavi veri dei libri
Questa è una storia vera, tutta quanta. I nostri nuovi vicini hanno arredato la loro casa, tutta quanta con i loro modesti mezzi, così che si sono rivolti a un economicissimo mobilificio di successo. L’altra settimana di prima mattina, non saprei dire da dove, sono arrivati tre furgoni ognuno con un equipaggio di tre uomini, ogni equipaggio di diversa nazionalità, uno russo, uno albanese e un ultimo moldavo; un solo uomo parlava un poco d’italiano, era il portavoce, tra loro nessuno capiva la lingua dell’altro. C’erano da scaricare tonnellate di mobilio, lo hanno fatto con forza di braccia senza un carrello, senza un paranco, a spalla su per le scale, erano svelti, capaci, sudavano e c’erano tre gradi sopra lo zero. Hanno lavorato di gran lena, gli è stato offerto un caffè, lo hanno gradito sorbendolo intanto che andavano, non si sono seduti, andavano con la tazzina in una mano, l’attrezzo nell’altra. A mezzogiorno gli è stato chiesto se avessero gradito un piatto di qualcosa, un panino, offriva il cliente; il portavoce ha detto che no, andava bene così, avevano mangiato già la sera prima, e poi non avrebbero potuto fermare il lavoro. Venivano pagati a minuto, ogni pezzo un tot di minuti per montarlo, per ogni minuto in più c’era una multa, per ogni minuto in meno un premio. Hanno finito e se ne sono andati via contenti, ci hanno trovati tutti quanti molto gentili. Mi sono chiesto quanto potranno durare a lavorare così prima di dire basta, nemmeno gli animali; qualche anno, decenni, forse una vita intera? E mi è venuta in mente una storia di qui, una storia di Romagna del secolo scorso, al tempo del ventennio. C’era un proprietario terriero molto attento ai suoi beni, con diuturna energia girava per le sue campagne a controllare il lavoro dei suoi braccianti; andava a cavallo, portava al polso una frusta, se gli sembrava che il lavoro non fosse ben fatto, prendeva a frustare l’inetto. Capitò al tempo delle pulizie dei fossi che trovasse svogliato un tale che stava falciando, e lo frustò ben bene; l’uomo piangeva e guaiva, basta padrone mi fai male, e il padrone giù a frustare. Poi successe che l’uomo compì un gesto, da come lo raccontano fu un gesto di grande plasticità, qualcosa di michelangiolesco; la falce si levò in un ampio, saettante arco nel sole prima di calare a sgozzare il padrone. Che morì in pochi secondi; il bracciante fu messo in salvo da una social catena di passatori e fu traslato fin nella Francia, dove visse fino alla fine naturale dei suoi giorni, ben dopo la fine del ventennio fascista. Quel gesto, eppure così efficace nell’immediato e nel personale, non salvò i braccianti rimasti sui campi dai discendenti dello sgozzato, che smisero di usare personalmente la frusta e la affidarono a un manipolo di volenterose camicie nere. Per liberare i braccianti dalla frusta dovettero passare molti anni, una guerra, la resistenza, e infine palesarsi anche per loro la Repubblica, e nella repubblica Giuseppe Di Vittorio, che non sgozzò nessuno né invitò a farlo, ma fondò un sindacato, e quello fu un gesto di grande plasticità, ancora più michelangiolesco della falce vibrante nel sole. Guardavo i facchini andarsene sui loro furgoni soddisfatti per aver rispettato il minutaggio, così che anche quella sera avrebbero mangiato. Sono giovani, pensavo, sono in salute, sopporteranno a lungo, ma chi gli può chiedere di farlo per tutta una vita? Non c’è nessun Di Vittorio che parli la loro lingua e parli per loro, nessuno che gli dirà di lasciar perdere la falce, ché si può fare e essere qualcosa di meglio, vivere per il meglio in questo tempo di schiavitù sotto fruste invisibili di padroni invisibili. E poi l’altro ieri ecco che l’inatteso, l’inverosimile è successo; undici schiavi si sono liberati della loro servitù. Forse ricorderete che nel luglio scorso nella provincia veneta fu trovato in un fosso un cittadino di origine pakistana mezzo morto di botte; da lì i carabinieri risalirono a una falsa cooperativa che operava all’interno di una delle più grandi e performanti tipografie d’Europa costringendo i lavoratori di origine straniera, prevalentemente richiedenti asilo, in un regime di schiavitù.
A qualcuno parve un grave scandalo scoprire che la massima parte dei libri pubblicati in questo Paese, compresi quelli degli autori e editori più politicamente impegnati e eticamente immacolati, fossero frutto del lavoro di schiavi, ma in verità furono poche le voci che si levarono in proposito, come se i produttori di cultura si sentissero in un altro e più elevato mondo rispetto a quello in cui i loro bei pensieri e le loro buone parole diventavano prodotti commerciali, esenti da ogni responsabilità per ciò che accadeva del loro lavoro. Riscattò il silenzio Papa Francesco con una lettera pubblicata anche da questo giornale, di severa condanna del disumano stato delle cose, invitando gli operatori della cultura all’obiezione e al rifiuto della complicità.
Nemmeno questo parve avere un qualche effetto; autori e editori se ne ristettero nel loro silenzio mentre il proprietario della tipografia si produsse in agghiaccianti esternazioni al cui culmine fu di risolversi da lì in poi ad assumere solo lavoratori veneti e mai più stranieri, di cui era evidente l’insensibilità, l’ingratitudine e la bruttura. Sono stati infine quei bruti a compiere un gesto, ed è stato di grande plasticità e, data la loro condizione di asserviti senza diritto alcuno, di inaudito coraggio. Si sono iscritti al sindacato, e il sindacato ha fatto il suo lavoro, il plastico lavoro di Di Vittorio. È stato un buon lavoro, e l’altro ieri la grande tipografia si è risolta ad assumere con regolare contratto gli 11 suoi ex schiavi. Undici, e ce n’è ancora a decine di migliaia e i facchini del mobilificio tra questi, ma è pur sempre una buona notizia, c’è chi ha preso un cucchiaio e si è messo a svuotare il mare. Che è questo ciò che si impone a ogni coscienza di giustizia, obiettare all’abominio e mettersi di buona lena a svuotare il mare. —