Corriere della Sera, 21 febbraio 2022
Intervista a Delphine Horvilleur - su "Piccolo trattato di consolazione. Vivere con i nostri morti" (Einaudi)
PARIGI. Dice Delphine Horvilleur che la sua opera di accompagnamento nei cimiteri, che dura da ormai 14 anni, è diventata quasi oggetto di scherzi tra i suoi amici. «Alcuni mi domandano “allora, chi è morto oggi?”, “Chi seppellisci domani?”. Altre volte incontro persone che mi chiedono di intervenire ai loro funerali, e qualche volta sono tentata di rispondere “sì, sono disponibile domani pomeriggio”. Con il Covid ho sentito che dovevo scrivere il libro che avevo in mente da tanto tempo». Così è nato il Piccolo trattato di consolazione. Vivere con i nostri morti che esce domani in Italia per Einaudi, dopo essere stato un bestseller in Francia.
Nata a Nancy 47 anni fa, sposata, madre di tre figli, Horvilleur è esponente della corrente liberale dell’ebraismo e una delle rare rabbine francesi, una intellettuale erudita che in questo libro si rivolge a ebrei e non ebrei come fa nella sinagoga Beaugrenelle di Parigi. Nel Piccolo trattato di consolazione Horvilleur racconta una parte importante della sua attività di rabbina: aiutare nel lutto, al cimitero, i familiari delle persone appena decedute, usando le parole. Una riflessione sull’uso del linguaggio «per non lasciare l’ultima parola alla morte».
L’argomento non è facile e forse per questo poco trattato.
«C’è una grande rimozione della morte, ci si arriva impreparati, senza gli strumenti per affrontarla, non sappiamo come parlarne. Forse per questo il mio libro ha avuto un successo che mi ha sorpresa: ha colmato in parte un vuoto e ancora oggi, a quasi un anno dall’uscita in Francia, ricevo ogni giorno molte lettere. Dal libro verrà tratta anche una serie tv».
Sin dall’inizio lei mette le cose in chiaro spiegando che cimitero in ebraico significa «la casa della vita». Accettazione, non fascinazione.
«Fa parte della tradizione ebraica avere paura di tutto quello che può affascinare della morte. L’ebraismo di solito tiene a distanza i mausolei, ciò che di morboso ci può essere nel culto dei morti. È proprio nel cimitero che si deve celebrare la vita, raccontare la forza vitale di coloro che non ci sono più ma hanno lasciato un’eredità potente nelle nostre esistenze. Per questo prima dei miei discorsi devo parlare con i familiari, entrare nelle loro case, scorgere da un dettaglio, un oggetto, un tratto decisivo della personalità».
Come faceva durante la pandemia?
«È stato molto difficile, anche perché ho i miei rituali. Di solito prima di tornare a casa dal cimitero ho l’abitudine di fare una tappa in un negozio o in un caffè, come per creare una camera di compensazione. In quella situazione non era più possibile, ho dovuto usare il telefono e Zoom, in camera da letto mentre i bambini giocavano nel salone. Allora aprivo le finestre e scuotevo le lenzuola, mi sembrava di avere lasciato entrare la morte in casa e volevo scacciarla».
Un capitolo importante del libro è quello dedicato ai funerali della psicoanalista Elsa Cayat, l’unica donna assassinata dai terroristi nel massacro di «Charlie Hebdo». Non era affatto praticante, e lei ha parlato davanti ai superstiti di una redazione di mangiapreti anti-religiosi. Cosa le rimane di quella esperienza?
«Al cimitero di Montparnasse, dove riposa Elsa Cayat, sulla sua tomba ancora oggi spesso trovo una copia del discorso che pronunciai quel giorno di gennaio 2015. Ci sono molti modi diversi di vivere l’ebraismo, alcuni lo fanno in modo religioso, altri per niente. Io cerco di fare attenzione a trovare il registro giusto, quello più rispettoso della persona che si sta salutando. Quel giorno, mentre molti cercavano di radicalizzare le posizioni, mettere l’uno contro l’altro credenti e non credenti, “Charlie” da una parte e le religioni dall’altra, quando alla fine ci siamo abbracciati abbiamo capito che forse in quel momento si giocava la possibilità di una ricostruzione nazionale, che è una cosa un po’ magniloquente da dire ma nella quale credo davvero. Per me è stata una svolta, ho capito quanto ero attaccata alla laicità».
In un altro passaggio racconta del bambino che ha appena perso un fratello. Come si può affrontare un caso simile?
«La nostra incapacità di parlare della morte è ancora più grande quando la affrontiamo con i bambini, che non sanno più se volgere lo sguardo verso il cielo o verso la terra. Paragoniamo la persona che non c’è più a “una stella nel cielo”, ma il suo corpo è nella terra, i bambini lo sanno e sono ipersensibili all’incoerenza. I conti non tornano. Usiamo queste metafore per proteggere i bambini ma in realtà vogliamo proteggere noi stessi. Forse sarebbe meglio ammettere la nostra inadeguatezza, chiedere ai bambini di essere tolleranti con i nostri limiti e con la nostra incapacità di trovare le parole».
Questa incapacità porta talvolta al desiderio di negare la morte fisica, di considerarla una malattia che si può curare, come fanno certi transumanisti che inseguono l’immortalità. Perché lei invece ricorre all’immagine dell’apoptosi?
«L’apoptosi è la morte programmata delle cellule, necessaria alla sopravvivenza dell’organismo. Da quando io e lei abbiamo cominciato a parlare molte cellule dei nostri corpi sono morte, o almeno lo spero perché in caso contrario nascono i tumori. La condizione della vita è la morte e credo che questo sia vero su una scala più larga, anche a livello sociale e politico».
A che cosa si riferisce?
«Penso per esempio alla campagna elettorale alla quale stiamo assistendo in Francia, alle proposte politiche conservatrici che magnificano il passato, il ritorno a una Francia immutabile, eterna. Restare sempre uguali a sé stessi impedisce l’evoluzione ed è quello sì un atteggiamento mortifero».
Vale anche per le religioni? In fondo le resistenze che lei ha incontrato per diventare rabbina ne sono un indizio.
«È così, e se l’ebraismo è ancora vivo è perché ha saputo rinnovarsi, nonostante fortissime opposizioni al suo interno».
La morte come premessa della rigenerazione?
«Quel che ci angoscia della morte è che la consideriamo sinonimo di fine, ma non è sempre così. Quando le persone che amiamo muoiono, possiamo comunque instaurare un dialogo con loro. Diverso, certo, da quello che stiamo avendo io e lei in questo caffè, ma possiamo comunque fare proseguire la conversazione. Le tracce lasciate nelle nostre esistenze da coloro che amiamo sono piene di vita».