Linkiesta, 21 febbraio 2022
Ho avuto sedici anni quando esistevano gli adulti
La fortuna per la quale mi vien voglia di convertirmi a una qualsivoglia religione e ringraziare un qualsivoglia dio non è quella d’aver avuto quindici, venti, venticinque anni in un’epoca in cui i cellulari non avevano la fotocamera (è anche quella, ma non principalmente).
La fortuna per la quale mi vien voglia di convertirmi a una qualsivoglia religione e ringraziare un qualsivoglia dio non è quella d’aver imparato a scrivere in pubblico (a scrivere cose pubbliche s’impara solo scrivendo in pubblico) quando i giornali ancora non mettevano gli articoli on line lasciando testimonianza perpetua delle mie goffaggini d’apprendista (è anche quella, ma non principalmente).
La fortuna per la quale mi vien voglia di convertirmi a una qualsivoglia religione e ringraziare un qualsivoglia dio è quella d’aver avuto sedici anni in un’epoca in cui per gli adulti i sedicenni non esistevano. In cui gli adulti facevano gli adulti, e non avevano nessuna smania di dimostrarsi al corrente dell’ultima moda, dell’ultimo cantante, dell’ultimo gergo dei figli. (L’altro giorno Adriano Sofri ha scritto «io non scrivo resilienza: ho la mia età», e io quasi piangevo dalla gratitudine).
Credo d’aver raccontato un milione di volte di quel febbraio degli anni Ottanta a Cortina in cui mio padre, invece del montone solito, e adatto ai suoi maturi quarantacinque anni, decise d’indossare una mia giacca a vento, quel piumone che ci facevamo regalare a quindici anni e che continuiamo a comprare a cinquanta, essendo una generazione di adolescenti senili.
Facciamo un milione e una, abbiate pazienza: il ragazzino che mi piaceva venne da me e mi disse che mio padre col giaccone da adolescente era ridicolo. Il ragazzino compie cinquant’anni tra un paio di settimane (dopo una certa età ti ricordi solo i compleanni dei primi amori), e non è sui social. È l’unico divenuto adulto della mia generazione, una generazione che – non so se per compensare carriere non fatte, prìncipi azzurri non incontrati, o il fatto che le nostre madri avevano l’argenteria e noi abbiamo Glovo – insegue i sedicenni smaniosa di dimostrarsi a loro affine.
È stato interessante vedere le reazioni all’elzeviro in cui Concita De Gregorio ha detto che «mica stai sulla Salaria» è un modo di dire, nulla per cui abbia senso stravolgersi o chiedere teste. Da parte delle mie coetanee, fin lì indignatissime, c’è stato un collettivo sospiro di sollievo: quindi possiamo dire che la differenza tra noi e i sedicenni è che a noi si è finito di sviluppare il cervello, quindi una scrittrice non sospettabile d’insensibilità su un quotidiano tradizionalmente di sinistra revoca l’ordine che ci avevano impartito quelle la cui idea di militanza è fare i cancelletti su Instagram.
Ieri sulla Stampa c’era un articolo di Nicola Lagioia intitolato “Cosa ci insegnano i ragazzi”, e io sogno un mondo in cui quell’articolo fosse composto da una sola parola: Niente. Al netto dei miei sogni proibiti, è interessante che, tra gli esempi di gioventù ribelle che ci salverà dal nostro trombonismo, Lagioia citi un cantante che a Sanremo ha urlato «stop greenwashing». Ovviamente non l’avevo mai sentito nominare (ho la mia età), e sono andata a cercarlo incuriosita dalla definizione lagioiana di «non ancora quarantenne». Dice Google che il cantante – si chiama Cosmo, vi prego di credere che il mio non è ostentato sprezzo del cantante in questione: è proprio che non ascolto i viventi – ha compiuto quarant’anni sabato. Quindi Lagioia dice il vero, a Sanremo egli aveva trentanove anni e cinquanta settimane.
Rientra nella definizione di gioventù? Non è mica una domanda ironica: dei parametri andranno stabiliti. Per ora mi pare siano un po’ confusi, quelli che accumuliamo: il voto ai sedicenni perché sono tanto maturi, ma i giovani trentanovenni che con la loro freschezza ci salveranno dagli adulti.
In “Licorice Pizza”, il film di Paul Thomas Anderson che esce a marzo, un quindicenne chiede a una venticinquenne di raggiungerlo nel ristorante in cui cena da solo. Lei dice ma hai quindici anni, tua madre dov’è. Lui risponde che lavora. “Licorice Pizza” è ambientato nel 1973. Nel 2022 nessuno si permetterebbe di dire a un quindicenne che ha solo quindici anni, in compenso sua madre lo geolocalizzerebbe anche mentre attraversa la strada (quella madre ultraquarantenne che vorrebbe essere chiamata «signorina» perché ritiene che «signora» la renda inaccettabilmente adulta).
Il problema è che avete quasi tutti dei figli (il problema dell’inverno demografico è che non è abbastanza rigido). E, come ogni mamma nella storia del mondo, siete determinati a trovare intelligentissimo il vostro scarafone. Sabato, al congresso di Azione, Carlo Calenda ha detto che i genitori non devono permettersi di fare causa alle scuole per i brutti voti dei figli. La platea ha compattamente applaudito; finito l’applauso, ha plausibilmente ripreso in mano la chat di classe per minacciare il professore che sottovaluta lo scarrafone: prepotenti son sempre gli altri, noi pretendiamo solo obiettività nel giudicare il piccolo genio.
Nello stesso discorso, Calenda ha riportato il parere del figlio sedicenne sulla vicenda della pancia fuori al liceo. Il parere era: una volta non si poteva andare a scuola senza cravatta. La classica banalità che dice un sedicenne, e per la quale i nostri genitori avrebbero sbuffato. Calenda la cita in un congresso di partito con la premessa che il figlio è tanto colto e legge Thoreau. Chissà se ha dimenticato com’era lui a sedici anni, Calenda.
L’impressione è che lo abbiamo dimenticato tutti. Che la sopravvalutazione di questi ragazzini che come tutti i ragazzini nella storia del mondo non vogliono fare i compiti in classe e vogliono vestirsi come degli sciamannati, di questi ragazzini che ieri protestavano perché la pandemia non li mandava a scuola e oggi protestano perché la scuola osa pensare di dar loro dei voti, che il rifiuto a considerare i sedicenni ontologicamente scemi sia una determinazione a fare del revisionismo autobiografico. Stiamo dicendo che i sedicenni sono svegli per dire che eravamo svegli noi.
Solo che a qualcosa dobbiamo contrapporli, e allora per dire che loro ora sono svegli dobbiamo dire che noi ora siamo una massa di beoti – che va bene, funziona, l’autocritica piace al pubblico e comunque mi pare difficile negare il tasso di scemenza media che c’è in giro, specie da quando i social ci danno modo di esporla a tutte le ore e noi figurati se non ne approfittiamo: i social sono il campo di gioco in cui cattedratici dicono tali minchiate che ti vien quasi da rivalutare quelli che in bio hanno «università della vita», almeno le loro minchiate non hanno il bollino Chiquita. Però. Certo che c’è un però.
Il però è che la parabola del magnifico sedicenne che ascoltava Kurt Cobain e pensava tutte le cose giuste e avrebbe saputo come salvare il mondo se solo l’Enrico Letta dell’epoca gli avesse dato diritto di voto, la parabola di quel sedicenne lì che poi diventa un quarantenne troppo imbecille per occuparsi di cose da adulti, un adulto costretto a inseguire i gusti dei ragazzini e a fare i balletti su TikTok per sentirsi vivo, quella parabola lì non può che essere la storia che si ripete, no? Quindi quel che stiamo dicendo è che gli illuminati adolescenti di oggi diventeranno gli ottusi adulti di domani. Quel che state dicendo è che state allevando imbecilli quanto voi, ma risparmiando lo sforzo di provare a educarli che avevano fatto i vostri genitori. E, se andate al risparmio di quella brutta fatica che è impartire una disciplina voi, perché mai dovrebbe volerlo fare la scuola.