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 2022  febbraio 18 Venerdì calendario

Su "La parabola della Repubblica. Ascesa e declino dell’Italia liberale" di Angelo Panebianco e Massimo Teodori (Solferino)

Con le elezioni del 2018 l’Italia è diventata una sorta di Mecca del populismo, per via del simultaneo successo dei Cinque Stelle, della Lega e in parte anche di Fratelli d’Italia. Ma il fenomeno non è completamente nuovo, perché pulsioni di quel genere erano presenti già nelle forze di massa protagoniste del dopoguerra.

L’idea della «diversità» comunista, vantata con orgoglio da Enrico Berlinguer, posava sulla tesi che la classe operaia rappresentata dal Partito comunista fosse portatrice di valori genuini che la rendevano moralmente superiore a una borghesia bacata dalla corruzione. Ma anche nella Democrazia cristiana affiorò a volte, per esempio in occasione del referendum sul divorzio voluto da Amintore Fanfani, la tentazione di fare appello ai sani sentimenti tradizionali del popolo cattolico in contrapposizione alle classi più benestanti ormai secolarizzate.

La stessa strategia del compromesso storico, anche nella versione della «solidarietà nazionale» gradita alla sinistra democristiana, aveva come sottofondo l’idea che l’incontro tra i grandi partiti dotati di una vasta base elettorale potesse essere la via per trasformare il Paese proprio grazie alle virtù insite delle masse popolari.

Queste tendenze tuttavia, nel periodo precedente al rivolgimento dei primi anni Novanta, trovarono un antidoto nell’azione delle forze laiche, come sottolineano Angelo Panebianco e Massimo Teodori nel libro La parabola della Repubblica, in uscita il 24 febbraio per Solferino. In epoca centrista repubblicani, liberali e socialdemocratici, d’intesa con il leader cattolico liberale Alcide De Gasperi, tennero a freno le tentazioni clericali autoritarie alimentate da Luigi Gedda con l’appoggio evidente del Papa Pio XII. E il Pci venne costantemente incalzato, in forme diverse, da chi cercò, con il dialogo o con la polemica ideale, di promuoverne l’approdo verso le sponde della sinistra europea occidentale.

Peccato però — è con questa osservazione che comincia il ragionamento di Panebianco e Teodori — che personaggi di grande prestigio come Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Carlo Rosselli, fossero caduti vittime del fascismo tra il 1924 e il 1937, perché dopo la Liberazione avrebbero potuto dare un contributo prezioso alla modernizzazione del sistema politico in senso liberaldemocratico. Ma in fondo in epoca repubblicana essi trovarono almeno all’inizio degni eredi, per quanto divisi su molte questioni anche importantissime: Ugo La Malfa, Giuseppe Saragat, Mario Pannunzio, Giovanni Malagodi, per citare solo alcuni tra i più autorevoli.

Dal principio degli anni Ottanta però la situazione andò rapidamente deteriorandosi. La caduta del Muro di Berlino e la bufera di Tangentopoli si abbatterono così su un quadro politico fragile. E lasciarono spazio all’insorgenza populista nelle sue varie forme: dal tifo da stadio per Antonio Di Pietro e il pool Mani pulite, di cui oggi si riparla nel trentennale dell’inchiesta, al secessionismo padano a forte impronta xenofoba, capitanato da Umberto Bossi.

Panebianco e Teodori ripercorrono quelle vicende con intelligenza e passione, ma lo fanno, per così dire, in parallelo, nel senso che per ciascuna fase storica al lettore viene offerta la versione dell’uno e quella dell’altro, che sono caratterizzate da una sintonia di fondo, ma presentano anche notevoli differenze. Il che peraltro non toglie nulla al libro, anzi lo arricchisce.

Teodori è uno storico, ma è stato anche un parlamentare radicale molto attivo, quindi i capitoli curati da lui hanno un taglio più militante, per esempio quando ricorda la sua relazione di minoranza da membro della commissione d’inchiesta sullo scandalo P2. Un’analisi che classificava Licio Gelli non come un eversore, secondo la vulgata complottista più in voga, ma come un uomo interno al sistema partitocratico e alle sue logiche consociative.

Panebianco ha avuto anch’egli un periodo di iscrizione al Partito radicale, ma molto più breve e meno intenso sul piano dell’impegno, per cui esprime giudizi più distaccati, da politologo attento alle dinamiche complessive e all’assetto costituzionale del Paese, sul quale non esita a esprimere motivate critiche.

Significativa sotto questo profilo è la divergenza che si registra nel giudizio su Marco Pannella. Teodori non esita a biasimarne il protagonismo «sciamanico», rimproverando al leader radicale di non aver voluto consolidare il successo elettorale ottenuto nel 1979 per inseguire invece la chimera transnazionale e compiere scelte a volte di sapore populista. Più indulgente Panebianco, secondo il quale a Pannella, nonostante gli errori, «spetta un posto di rilievo nella storia del liberalismo italiano».

Quanto all’attualità, Teodori denuncia la deriva di un Pd abbagliato dalla discutibile prospettiva della convergenza strategica con i Cinque Stelle, mentre Panebianco constata amaramente che il referendum perduto da Matteo Renzi nel dicembre 2016 ha stroncato forse definitivamente l’ipotesi di una riforma costituzionale indirizzata a rafforzare il potere esecutivo. Entrambi auspicano l’avvento di un centro equilibratore, che possa ridare fiato alla democrazia liberale e arginare le spinte populiste. Ma non si nascondono che il futuro del Paese appare sommamente incerto.