Tuttolibri, 19 febbraio 2022
Su "Trema la notte" di Nadia Terranova (Einaudi)
Due città separate da un mare così sottile che nei giorni più limpidi qualche temerario può illudersi di raggiungere l’altra a nuoto, due città che di notte si guardano le luci a vicenda e la stessa luna riflessa nell’acqua. Reggio Calabria e Messina, due città sullo Stretto e un solo terremoto, quello del Natale 1908. Dalle ore che precedono quel sisma da centomila morti prende l’avvio Trema la notte, il nuovo romanzo di Nadia Terranova pubblicato da Einaudi Stile Libero.
Nel breve preludio una voce narrante femminile convoca miti e mostri di un luogo tanto singolare, e le «carte di quel mazzo di tarocchi che il vento ci ha disordinato nel buio». Poi ogni capitolo avrà per nome uno degli Arcani Maggiori. La voce di Barbara – a tratti antica, quasi da sacerdotessa nel preludio - racconterà di sé e, simmetricamente, di Nicola, un bambino undicenne altrettanto solitario sull’opposta sponda calabrese. Eccoli, i due protagonisti.
Come spesso accade le grandi tragedie collettive non intervengono a sconvolgere vite serene, come spesso accade il colpo si abbatte su sofferenze già radicate. Nicola è figlio di un matrimonio opportunistico, è figlio di un padre preso solo dalla sua ascesa sociale e di una madre possessiva che esercita sul bambino un controllo totale e delirante. A lui, nato quando nessuno ci sperava più, è affidato l’impossibile compito di rendere felice Maria che lo vuole tutto per sé. Gli sono negati pericoli ma anche esperienze, interessi, semplici percezioni. La madre desidera al posto suo ciò che per lei è bene, decide che gli piace il torrone di Bagnara e gliene serve un pezzo esagerato che lui dovrà mangiare fino all’ultima mandorla. Nel primo capitolo, «L’Appeso», scendiamo con Nicola nella botola della cantina e nell’orrore notturno che Maria è stata capace di concepire pur di tenerlo al riparo dal diavolo. Qui di felice c’è solo l’ispirazione di Nadia Terranova nel rendere vivido in poche pagine il malamore di una madre gravemente disturbata.
Speculare, sulla sponda siciliana del romanzo, c’è un’altra prigione di famiglia, quella che il padre di Barbara sta costruendo per lei: un matrimonio combinato, che la incasellerà definitivamente in uno dei ruoli giusti per le donne, di cui quest’uomo ha in mente un repertorio limitato e retrogrado. Somiglia a tanti padri che ho conosciuto da ragazza nelle mie campagne in Abruzzo, ma anche nei paesi: in fondo non vedevano l’ora di consegnare a un altro la responsabilità delle figlie femmine. A volte amatissime, per carità, ma che se la vedesse il marito, finalmente, dopo una ventina d’anni in cui i papà si erano stancati a difenderne la virtù. E nel caso di Barbara la fatica paterna è stata raddoppiata dalla precoce vedovanza che ha lasciato un uomo solo a crescere una ragazza troppo dedita alla lettura, suo unico rifugio. Non per niente è un libro l’oggetto parlante che Barbara cerca inutilmente di passargli nelle mani quando lui l’accompagna a prendere il treno per Messina, dove vive la nonna. Maria Landini, il romanzo di Letteria Montoro, contiene lo stesso rifiuto al matrimonio di convenienza che Barbara ha appena pronunciato, ma suo padre lo lascia cadere nella polvere della stazione di Scaletta Zanclea rinunciando all’ultima occasione per conoscere e forse comprendere la figlia. Nadia Terranova riesce a dare tutto il respiro al sogno di libertà della protagonista senza mai sovrapporsi all’oggi, le riconosce pienamente la carica eversiva delle sue aspirazioni in un contesto in cui alle donne era negata non solo la realizzazione ma anche il desiderio, giudicato peccaminoso. La disobbedienza di Barbara che a noi potrebbe apparire scontata è al tempo suo una rivoluzione.
Su queste vite interviene il terremoto: «il mondo come l’avevo conosciuto finì e ogni cosa amata e odiata disparve». Così Barbara condensa i suoi effetti, restituendoci poi le componenti percettive della catastrofe naturale, fragore e boati, puzza di morte e la distesa di rovine fino alla palazzata che prima accoglieva i naviganti in arrivo a Messina. Abitando in terre che tremano ho trovato del tutto familiare questo senso di azzeramento.
Immensa la perdita sulle due sponde dello Stretto, tra i tanti Nicola resta orfano della protezione folle di Maria e dall’altra parte Barbara si trova all’improvviso sola fuori della gabbia. Non sanno ancora niente l’uno dell’altra, condividono solo a distanza lo spaesamento di chi si ritrova liberato non per scelta del carceriere ma per la sua scomparsa. L’autrice esplora nel profondo quella piega d’ombra in cui soprattutto la ragazza, più consapevole, resta confusa e si dibatte tra la nuova condizione a lungo cercata e la nostalgia dei vecchi legami tanto asfissianti quanto sicuri. La disgrazia apre la strada a traumi successivi: è in occasione del più forte che Barbara e Nicola si incontrano brevemente per non dimenticarsi mai più. In questo snodo converge tutta la costruzione precedente del romanzo, e da qui si dirama verso il finale.
Da dove arriva la salvezza, se pure è possibile? Intorno a Barbara si forma e si trasforma una piccola rete solidale di figure femminili, raccontate con intensità. In una pagina le vediamo sedute a tavola nel villaggio che la regina Elena ha voluto donare ai terremotati, solo baracche in realtà. Sembra quasi di poterle toccare queste donne scampate alla morte e sopravvissute a ogni sorta di dolore: mangiano insieme rompendo con le mani i fili del formaggio fuso, i piedi scalzi sotto le gonne e la notte che scende piano su di loro. Ecco i legami elettivi – spesso nati per necessità – che sostengono nell’orfanezza.
Nadia Terranova ha avuto in questo libro il coraggio di allontanarsi dalla scrittura delle sue opere precedenti per arrivare a una mimesi perfetta della lingua di una giovane del primo ‘900. È una lingua che suona allo stesso tempo antica e moderna, spiazza il lettore nell’incipit, ma poi subito lo prende dentro portandolo in stretto contatto con i personaggi e i loro posti di sciagure e bellezza.