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 2022  febbraio 19 Sabato calendario

Una favola per spiegare il futuro della fede


La Storia del mondo è anche una fiaba, quasi la stessa ma con alcune varianti che la rendono unica e irripetibile come ogni vita e ogni vicenda umana. Il bambino si perde nel bosco, vede una luce o più luci che appaiono e scompaiono fra le macchie scure dei cespugli, bianchi sassi segnano un cammino, che può condurre a un buio ancora più profondo o sfociare in una felice radura. La fiaba è come una foresta, in cui nascono, da cui provengono e in cui riaffondano i canti, le leggende, i miti.
Questo vale per ogni Paese e ogni cultura, ma in particolare per la Germania e la cultura tedesca. Nelle fiabe dei fratelli Grimm c’è l’anima, la varietà, il profondo passato e il tangibile presente di tutto il vasto e vario Paese, le voci e la musica dei suoi grandi e minori poeti; uno spartito, possente e sfuggente, ora attraversato da un soffio di eternità ora fuggitivo come una nostalgia d’amore. Incantevoli Lieder, personalissimi e impersonali come ogni fiore, ogni vita. «Tutto sta eterno davanti allo sguardo di Dio – dice nel Divano occidentale-orientale di Goethe la bellissima Suleika – amalo in me, per questo istante».
Nella sua Introduzione al Cristianesimo (1968) Joseph Ratzinger si richiama a una storia popolare, ad una fiaba. Non tedesca e nemmeno cattolica, ma di Søren Kierkegaard. È la storia di un clown di eccezionale bravura, irresistibile nella comicità e nel gioco delle somiglianze. Non si può non ridere ascoltando le sue storie e non credere a ciò che egli narra e che ha – come la Poesia – una forza di verità.
Un giorno il clown, stanco di lavorare – ridere e fare ridere è faticoso – va a fare una lunga passeggiata nel bosco, attraversa altri piccoli paesi, finché arriva a un villaggio in cui è scoppiato un terribile incendio. Tutto brucia e crolla, tante persone muoiono. Il clown corre più presto che può al suo paese e racconta, gridando angosciato, di ciò che ha visto, le fiamme omicide e i morti. Ma nessuno gli crede; tutti, anzi, ridono, convinti che si tratti di uno dei suoi spettacoli.
È significativo che la storia del clown sia inserita da Benedetto XVI nella sua Introduzione al Cristianesimo. Oggi, scrive, il mondo guarda spesso il messaggio cristiano come un gioco da circo che sembra non avere rapporto né con il vero né con il falso. Questo pessimismo, non privo di dolorose sfumature contenute nella dignità del ruolo, ha certo a che fare con la sua cultura tedesca, abituata a confrontarsi con il male e a stringere patti con il diavolo, anche se non con un diavolo da film dell’orrore. Certe scenografie sataniste sono più innocue di tutte le fandonie che si raccontano ogni giorno, dell’indifferenza relativa al vero e al falso e delle conseguenze di tale indifferenza, che può lasciare morire qualcuno tra le fiamme, come accade alle vittime dell’incendio invano denunciato dal clown.
Nella cultura tedesca – che spesso ha trovato nella teologia, così importante nella sua storia, una carica radicale di verità – c’è poco posto per la confidenza ottimista con la natura dell’uomo, per la fiduciosa speranza di poter sputare in qualsiasi momento quella stupida mela che un serpente non meno stupido ci ha messo in bocca.
Più recentemente Benedetto XVI si è trovato ad affrontare con rischiosa intensità orribili piaghe della Chiesa – in particolare la pedofilia e la tolleranza o complicità nei suoi confronti. Cose che indirettamente chiamano in causa chi può essere stato responsabile del cammino, della gloria e delle colpe della Chiesa stessa. Benedetto XVI – in questo caso soprattutto Joseph Ratzinger – ha replicato con durezza e sofferenza. Quel suo grido – «non sono un bugiardo» – è uno dei più grandi, dolorosi e sconvenienti scoppi di ira e di dolore che si possa sentire da un Papa.
Benedetto XVI ha incontrato grandi consensi, specie da chi vede in lui chi impedisce al Tempio di crollare e disgregarsi, e grandi contestazioni e rifiuti da parte di chi lo accusa di tradizionalismo reazionario, che cerca di bloccare il rinnovamento della Chiesa – da lui stesso auspicato con fervore all’inizio del Concilio, irrigidendolo in una statua di sale come la moglie di Lot.
Che la sua visione del futuro della Chiesa sia problematica e preoccupata è innegabile e che quelle preoccupazioni siano fondate lo è ancora di più.
Nel secondo – e il più bello – volume del suo Gesù di Nazareth egli si pone domande radicali sulla possibilità di quel futuro. Certo, scrive, noi – noi cattolici – abbiamo la promessa del «non praevalebunt», dell’indistruttibile durata del cristianesimo e della Chiesa. Ma nulla ci dice che, ad esempio per mille anni, la Chiesa non possa essere ridotta a una sparuta e irrilevante minoranza da catacomba. Potrebbe, anche in questo caso, prima o dopo ritornare nella pienezza, ma per le generazioni che si trovassero a vivere in quei mille anni sarebbe dura. Avrebbero l’impressione, dice Ratzinger, «di essere un pagliaccio», oppure addirittura un resuscitato da un sarcofago che si presenta al mondo odierno avvolto nelle vesti e nel pensiero degli antichi e pertanto dell’impossibilità di comprendere gli uomini dell’epoca nostra e di essere compreso da loro.
Benedetto XVI ha la fortuna di provenire da un Paese in cui la fede cristiana, professata e praticata, può essere cattolica e protestante. Un binomio – un dialogo, un confronto, uno scontro – che è stato ed è formativo e fecondo e può aiutare un po’ a resistere a quello che il catechismo, quando ero ragazzo, chiamava «il mondo e le sue pompe».