Corriere della Sera, 19 febbraio 2022
Intervista a Ficarra e Picone
State insieme da ventisette anni. Pochi matrimoni resistono così a lungo.
Ficarra: «Quasi ventotto».
Picone: «Peggio mi sento».
La leggenda narra che vi siete conosciuti in un villaggio turistico ai Giardini Naxos, a Taormina.
F: «È vero. Era il 1993, però quello che stava lavorando ero io, lui faceva il turista».
P: «Sì, ma tu mi hai colpito subito, mi hai fatto ridere. Facevi l’animatore, io volevo fare il cabaret. L’incontro perfetto».
Come nei migliori colpi di fulmine.
F: «I miei genitori avevano un piccolo negozio di abbigliamento, non sono figlio d’arte ma ho avuto una famiglia divertente. Mio zio sapeva raccontare di quando era stato in crociera e in famiglia glielo chiedevamo come sketch».
P: «Io facevo teatro fin da ragazzino, con una compagnia amatoriale. Sai quelle storie in cui provi per tutto l’anno una commedia che poi va in scena una sola sera?».
Però siete nati nel 1971 in Sicilia, dunque avete vissuto una delle stagioni più terribili della storia repubblicana. Che cosa ricordate con maggior nitore di quegli anni di mafia?
F: «Il “botto”, come lo chiamiamo qui a Palermo. Il botto, la bomba che mise fine alla vita di Giovanni Falcone e di tutte le persone che erano con lui. Quello stesso “botto” che noi citiamo nella nostra serie Incastrati. Poi quando uccisero Borsellino capimmo che quella era una guerra. Ma per la prima volta si capì da che parte stare. Falcone e Borsellino smisero di essere dei magistrati e divennero “due di noi”, anche perché venivano da quartieri popolari. La gente cominciò a fare il tifo per la legalità. E noi piano piano capimmo che attraverso il registro comico si possono mandare messaggi importanti. Che arrivano a tutti».
P: «Il nostro doppio monologo sui motivi per cui vergognarsi o essere fieri di essere siciliani attinge anche a quella fase della storia in cui aprimmo gli occhi. E di certo, grazie al sacrificio di quegli eroi (non temo la retorica nel chiamarli così) molti dei motivi per cui nello sketch ci vergognavamo di essere siciliani oggi sono superati. La Sicilia ha fatto passi avanti giganteschi, forse maggiori di altre regioni, grazie a quelle persone. Nel caso di don Puglisi poi, noi siamo sicuri che il sacerdote abbia perdonato il suo assassino. Ce lo dice la sua stessa vita».
Per chi votate?
F: «Ma chi vuoi votare con questa classe politica così adolescente? Comunque, non lo dico».
P: «Io dico per chi non voterei mai: mai voterei per quelli che un tempo accusavano noi meridionali di essere brutti, sporchi e cattivi, di non sapere nemmeno parlare l’italiano e oggi si trovano altri bersagli. Oppure non voterei mai quei miopi che pensano che la famiglia sia una sola. Però non voto nemmeno quelli che sono rivoluzionari solo a parole, ma nei fatti no».
Vent’anni fa uscì il vostro primo film, «Nati stanchi». Che stanchezza era?
F: «Quella che appesantisce con gli stereotipi, non solo siciliani ma italiani. Per esempio, di quelli che sbraitano perché vogliono la legalità ma basta che non tocchi gli affari loro».
P: «Io, per dire, per trovarmi un lavoro nel film volevo stampare soldi di contrabbando».
È vero che il titolo lo scelse Aldo Baglio, di Aldo, Giovanni e Giacomo?
F: «Lo approvò, fece una delle sue uscite tipo “Miii, che titolo!”. Una volta abbiamo fatto una vacanza con lui, a Pantelleria. Noleggiammo una barca e il primo giorno lui si fece male a un dito del piede. Il secondo giorno andò a fare i tuffi e si beccò i ricci di mare sulla gamba. Incerottato, decise di fermarsi in piscina ma riuscì a sbagliare tuffo e a ferirsi il labbro. Da morire di risate».
P: «Una volta uscimmo tutti e tre assieme e io mi sentii male, forse avevo mangiato qualcosa di avariato. Quando mi svegliai vidi ’sti due, Aldo e Salvo, che urlavano “Miii, si è svegliato!”».
Perché non avete mai lasciato Palermo?
P: «Perché vogliamo raccontare la Sicilia che viviamo, non quella che ricordiamo».
Come arrivaste a Sanremo nel 2007?
F: «Pippo Baudo, nel novembre dell’anno prima, ci venne a vedere in teatro e ci disse: “Ragazzi, vi voglio con me, fatemi due pezzi”. Decidemmo di farne uno comico e il secondo dedicato a don Puglisi. Ma a patto che Pippo non li vedesse in anteprima. “Affare fatto, affare fatto” disse il grandissimo Baudo. E così andò».
P: «Pochi sanno che io ho rischiato di non salire sul palco».
F: «Sì, ma adesso dici anche perché».
P: «Problemi intestinali. Ma l’ansia non c’entrava niente, eh».
Avete lasciato «Striscia la Notizia» dopo quindici anni di onorato servizio al bancone. Sui motivi sono state fatte le illazioni più disparate. Le più assurde?
F: «Per esempio hanno scritto che abbiamo litigato con Antonio Ricci, niente di più falso, perché lo amiamo e con lui c’è un bellissimo rapporto. Hanno detto che eravamo poco in sintonia con i palinsesti della rete. Ora, che alcuni programmi non rispondessero pienamente al nostro gusto può essere vero e forse li lanciavamo con meno entusiasmo, però noi abbiamo sempre avuto rispetto per i colleghi e le colleghe, che lavoravano esattamente come noi».
P: «Ma pochi sanno che cosa vuol dire lavorare a Striscia. Non solo devi andare in diretta, non solo ti cambiano i servizi da un momento all’altro e devi reggere la comicità, non solo si passa dalle risate alle cose più serie. Ma su tutto c’è anche Antonio Ricci che si mette a telefonarti, anzi, per la precisione a “citofonarti” con una comunicazione interna, mentre sei in onda, per farti andare in confusione. Quanto gli piaceva farlo con noi!».
Però in quindici anni chissà quante cose vi sono successe in quello studio.
F: «Be’, ricordo il periodo in cui mandavamo in onda i servizi su Luca Giurato. Io ridevo davvero, non riuscivo ad andare in diretta».
Avete mai incontrato Giurato?
F: «Certo, venne ospite a Striscia. Doveva presentare il disco del fratello. Peccato che se lo fosse dimenticato a casa».
P: «Io mi ricordo quando venne come ospite Paolo Villaggio. Ora, per due appassionati di comicità come noi quello è un incontro memorabile, perché Villaggio dal vivo era molto più cattivo, molto più tagliente rispetto alla finzione cinematografica. Cominciò a sciorinare una serie di stereotipi tra i più triti sui siciliani e noi gli davamo ragione, anzi, rincaravamo la dose. Riuscimmo a farlo sorridere, una conquista».
Si può fare satira su tutto?
P: «Penso che sia pericoloso decidere su che cosa si possa o non si possa fare satira. Questo è un principio chiave, poi, certo, entrano in gioco altre variabili, che sono la sensibilità personale, il carattere, il proprio sguardo sulle cose».
Nella satira avete avuto sempre libertà?
F: «Certo. Le racconto soltanto quello che facemmo a Striscia quando Berlusconi vinse le elezioni: ci mettemmo a strappare ogni sorta di bollettino, come la vecchia Ici. Ironizzavamo sulla promessa di abolire ogni sorta di tassa».
P: «E quando invece perse le elezioni ci mettemmo a festeggiare come se fosse stato Capodanno, con lo smoking!».
E adesso vi aspetta l’avventura con Roberto Andò e con Toni Servillo, un film la cui lavorazione è appena iniziata. Che film sarà?
F: «È ambientato nel 1920 e racconta un frammento della vita di Pirandello, che venne in Sicilia per un soggiorno breve ma importante perché legato alla messa in scena di uno dei suoi lavori più famosi».
P: «Di certo da Roberto impareremo molto, come abbiamo imparato da altri grandi registi. Per me, primo tra tutti, Peppuccio Tornatore».
Già, perché voi avete recitato (in ruoli non comici e non in coppia) anche in «Baarìa».
F: «Il produttore ci prese da parte e ci disse: guardate che un’esperienza del genere non si prova spesso. In effetti, una parte delle scene venne girata in Tunisia, ricostruendo un antico borgo. Una doppia magia per noi, perché da una parte c’era la mano di un maestro come Giuseppe e, dall’altra, la finzione più reale del vero. Lui poi secondo me ci ha ingannato anche in un altro senso: non poteva essere sempre lo stesso Tornatore quello che era sul set all’alba, al tramonto e a sera, mai stanco. Io penso che avesse un gemello con cui si alternava in gran segreto».
P: «Giuseppe ci insegnava tutto, con pazienza. Ricordo che una volta notai una sua inquadratura doppia, una più ravvicinata e una a maggiore distanza. Incuriosito gli chiesi se poi ci fosse tanta differenza tra l’una e l’altra. Lui smise un attimo di lavorare e mi fece mettere l’occhio in camera: la differenza era notevole e in pochi minuti mi aveva dato una lezione di regia».
Siete anche produttori.
«Con la Tramp abbiamo fatto tante cose belle, come i tre film di Edoardo De Angelis (vincitori di diversi premi) ma un posto nel nostro cuore ce l’ha Il figlio di Tarzan, un docufilm sulla vita di Giovanni Cupidi, una persona con disabilità».
Voi avete «dialogato», metaforicamente, con Aristofane, perché avete messo in scena una versione moderna de «Le rane». Aristofane è un altro che fa ridere davvero, no?
F: «Proprio perché abbiamo ritrovato in questo autore vissuto prima di Cristo una comicità così moderna, abbiamo pensato di metterlo in scena con la regia di Giorgio Barberio Corsetti, e con grande successo: due anni di repliche».
Ventisette anni, quasi ventotto insieme non si improvvisano. Fuori il segreto della coppia.
P: «Se non la pensassimo allo stesso modo sulle questioni fondamentali non saremmo riusciti a raggiungere questo traguardo. Certo, condividere le radici è tanto, ma non basta».
F: «Giusto, senti io devo scappare a prendere un aereo, continua tu Vale, ciao ciao».
Ecco, come sempre nella coppia ce n’è uno che scarica sull’altro i compiti più difficili.
P: «Capita nelle migliori famiglie».