Corriere della Sera, 19 febbraio 2022
Il manifesto choc per Cutolo
I manifesti di elogio dell’anima di Raffaele Cutolo apparsi ad Ottaviano, che fu la sua città, non devono generare stupore. Perché Cutolo, in quel pezzo di territorio, è percepito come l’ultimo welfare esistente. Per certi versi è stato davvero così. La Camorra degli anni ’80 e ’90 è stata l’organizzazione, forse l’ultima al Sud, che ha risposto immediatamente alla disoccupazione fornendo assistenza economica e presenza. Certo, mandando a morte i propri assunti/affiliati/soldati o inserendoli in percorsi criminali senza altro orizzonte che il carcere (curandosi poi di pagare l’avvocato e stipendiando la famiglia rimasta senza sostegno).
La Camorra da sempre investe sui giovani, nel senso che permette alle leve di affiliati di fare carriera se si impegnano o se sono dedite con abnegazione agli ordini impartiti. Spesso l’unico spazio in cui conta non solo il sangue a cui appartieni, ma anche le tue capacità al servizio del profitto criminale. Dico ciò sottolineando l’assoluto paradosso, ma è quel che è accaduto e che accade. Le organizzazioni criminali sono più solerti e presenti dello Stato, sopratutto laddove c’è solo abbandono e politica distratta. Quei manifesti che «elogiano l’anima benedetta» di Raffaele Cutolo annunciandone la messa in suffragio, riportano un soprannome, «’E monache», che indica i familiari di «’O Monaco», come era chiamato suo padre. Quindi non il nickname camorrista, «’O professore». Viene privilegiata la continuità con la sua famiglia di sangue e con suo padre Michele, uomo analfabeta, zappatore sotto padrone che per tutta la vita ha vissuto in miseria «come un monaco», con una religiosità ossessiva.
Come può un assassino capo di una delle organizzazioni criminali più feroci esser definito anima benedetta? Quando muore un boss c’è sempre una doppia interpretazione: da una parte la società civile, quella più colta, più impegnata, che ne ricorda la violenza, la sopraffazione, la connivenza, la distruzione, l’avvelenamento del territorio. Dall’altra quella parte di società che ha ricevuto elargizioni, favori, che votando ha ottenuto, tramite la camorra, un posto di lavoro. I clan erano garanzia per il voto di scambio, se il politico non manteneva la parola veniva punito. Oggi il voto di scambio esiste ed è fondamentale per vincere le elezioni, ma quando non c’è l’intermediazione mafiosa spesso il politico non mantiene la parola e non viene punito.
Cutolo fu anche giustizia immediata. Nel 1981 una bambina di circa dieci anni, Raffaelina Esposito, scomparve da Ottaviano e la Nuova Camorra Organizzata diffuse anche un volantino: «Noi uomini di Cutolo non ammettiamo che si toccano i bambini, liberate la piccola, sennò pagherete». La bambina non viene liberata, viene trovata in un pozzo 10 giorni dopo, uccisa non stuprata. Partono le indagini, la sua maestra elementare dice di averla vista l’ultima volta a bordo di una Fiat 127 rossa. I magistrati trovano un operaio di 37 anni, Giovanni Castiello, che era un dipendente dello zio di Raffaelina, proprietario di una 127 rossa. Lo interrogano, lui ha un alibi solido, lo rilasciano. Qualche giorno dopo viene ucciso e il comunicato è: «Giustizia è fatta», firmato Nco. Nessuno saprà mai se Castiello fosse davvero coinvolto. La Camorra lo ammazza con l’obiettivo di dare la sensazione di sicurezza, per dire che i bambini sono al sicuro, che qui non c’è droga, perché l’eroina e la coca si spacciano solo fuori dal territorio controllato, a Napoli, Roma, Milano, Stoccolma, ma non a Ottaviano. E inoltre, l’altro messaggio di Cutolo: i tribunali, lenti e ingolfati, impegnati ad accusare galantuomini, permettono addirittura a un pedofilo di uccidere. Invece noi della Nuova Camorra Organizzata interveniamo subito.
Quel manifesto per il primo anniversario della morte di Cutolo ricorda tutto questo. Non ricorda i soldi sottratti ai fondi statali post terremoto con cui si è creata la peggior classe politica meridionale, ma ricorda le elemosine date ai terremotati senza casa in cambio di un’obbedienza totale, ricorda i soldi dati alle famiglie dei carcerati, l’affiliazione in massa dei disoccupati vesuviani, il potere camorristico in un vuoto di lavoro, diritto e sicurezza. Certo, Ottaviano degli anni Ottanta è imparagonabile a quella di oggi, eppure la tragedia immensa del lavoro è stata affrontata con l’emigrazione, destino di generazioni di meridionali. Cutolo ha fatto sentire una parte della popolazione non abbandonata.
Quei manifesti terribili ci devono ricordare che le organizzazioni criminali non vincono solo con le pistole, col ricatto, vincono col consenso, con la presenza e anche con un certo tipo di deformata cura. Cutolo avrebbe potuto uscire dal carcere pentendosi, non l’ha mai fatto. Poteva accennare anche solo pochissime cose, e il valore simbolico del suo pentimento per lo Stato (come accade con molti capi) avrebbe fatto passare in secondo piano la sua poca reale voglia di collaborazione. Ha invece chiuso la sua vita in carcere volendo assecondare il suo mito, di monaco criminale che mantiene fede alla sua scelta d’omertà. Quel soprannome in fondo non è solo di suo padre, è stato anche – in un significato deformato – il suo destino.