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 2022  febbraio 19 Sabato calendario

Intervista a Monica Sabolo

PARIGI
In principio c’era la foresta. «Si poteva credere che quelle migliaia di chilometri di foreste e di laghi, di verde e di azzurro, costituissero una replica del paradiso» scrive Monica Sabolo in Eden, romanzo di iniziazione che si può leggere anche come un thriller psicologico dentro a un gruppo di adolescenti prigionieri in una piccola città stretta tra un’autostrada e l’antica riserva naturale minacciata dalla costruzione di un oleodotto. Lucy, giovane bianca e urbana, viene trovata addormentata ai piedi di un albero, nuda e coperta di ferite. La ragazza non vuole o non può raccontare cosa le sia successo. La sua amica Nita, discendente delle popolazioni autoctone, vuole invece penetrare il mistero di Lucy, che poi racchiude il senso della dominazione dell’uomo sul corpo e una natura in via di estinzione.
«Raccontare questa storia era una necessità» spiega Sabolo, già finalista del premio Goncourt. Nata a Milano nel 1971, la scrittrice dice di aver perso molto del suo legame con l’Italia perché ha quasi sempre vissuto in Francia. «Sarei incapace di scrivere in italiano» confida la romanziera che, secondo le Monde, «occupa un posto molto speciale nel panorama letterario francese».
Già in “Summer”, il suo precedente romanzo, il punto di partenza era un luogo naturale, in quel caso il lago.
«Cerco sempre uno spazio ambivalente. In Summer, il lago era al tempo stesso amore e bellezza ma anche universo inquietante, rifugio di creature misteriose. Questa volta sapevo due cose: volevo scrivere sulla foresta e su una banda di ragazzine. Amo il mondo arcaico, la natura selvaggia, i grandi miti, ma sono anche impregnata della cultura pop e di una certa modernità. In questo romanzo mi sono ispirata ai vecchi film anni Ottanta incentrati su gruppi di adolescenti in lotta contro le forze del Male».
Vivono da qualche parte tra gli Stati Uniti e il Canada?
«La foresta che mi ha ispirato è quella pluviale della Columbia Britannica perché è una delle più spettacolari al mondo. L’umidità che aleggia tra gli alberi fa pensare a un incendio. Facendo le ricerche per documentarmi su questa regione del Canada ho scoperto per caso articoli che parlavano delle giovani donne assassinate o disperse. È stato come ricevere un pugno nello stomaco».
Qualcuno dice ci siano state almeno quattromila ragazze disperse nella regione canadese, ma potrebbero essere molte di più.
«Sono quasi sempre ragazze discendenti dalle popolazioni autoctone, scomparse negli ultimi decenni in una sorta di indifferenza generale. Anche se ovviamente sono molto lontana da queste donne, credo nel potere universale della letteratura. Alla fine ho inventato quasi tutto: la foresta, la città, la leggenda. E ho costruito una storia completamente mia».
Perché ha scelto un’adolescente come voce narrante?
«Quando mi metto nella pelle di un adolescente sento di avere la voce giusta. È un’età per me ancora molto vicina, naturale, anche se devo immaginare un ragazzo come in Summer. Se dovessi invece usare ‘io’ per un uomo di cinquant’anni mi sembrerebbe un’impresa quasi impossibile. Penso tra l’altro che nell’adolescenza non c’è così tanta differenza tra maschi e femmine. I problemi sono simili: la paura dell’altro, lo straniamento dal mondo, la nascita del desiderio, l’impotenza di fronte al potere. L’universalità delle emozioni in quest’età è molto gender fluid».
È un romanzo anche sulla dominazione, in Francia si è parlato di libro “eco-femminista”.
«Ho scoperto il concetto di eco-femminismo dopo aver scritto
Eden. Non lo conoscevo prima ma leggendo i testi di questo movimento venuto dall’America c’è qualcosa di simile e che rispecchia quello che racconto: una visione verticale e patriarcale sulla natura e sulle donne, e in questo caso anche sulle minoranze autoctone. Le mie eroine e la foresta sono le due facce della stessa medaglia. Il mio approccio politico è qualcosa di intimo che passa attraverso la letteratura ma con il tempo anche io sto diventando meno disincarnata».
Il titolo è un riferimento al peccato originale?
«Il peccato originale è la donna. Mi interessa lavorare sul senso di colpa che non ricade quasi mai sul colpevole, ma spesso su esseri più fragili e sensibili, sulle donne, e molte volte sulle vittime del crimine.
Il senso di colpa attraversa tutti i miei libri perché si intreccia anche con i silenzi, i non detti, le parole».
La protagonista Nita non crede più nella bellezza e nel potere della foresta da quando suo padre è scomparso in questo luogo immenso e selvaggio.
«La foresta è una minaccia come capita per i luoghi ai margini, paralleli. Quindi è anche uno spazio di libertà. La società si è costruita contro la foresta, luogo senza istituzioni, senza legge, senza le strutture famigliari. È il mondo del selvaggio, il contrario delle convenzioni sociali. Eden è un romanzo di iniziazione, il passaggio dall’adolescenza all’età adulta».
Lei che rapporto ha con la natura?
«Mi ha salvato. Da piccola ero molto chiusa, avevo sempre la testa tra le nuvole, ero impacciata, cadevo in continuazione. Poi un’estate ho incontrato un pescatore, Ignacio, e sono diventata la sua discepola.
Abbiamo vissuto insieme avventure incredibili. A dieci anni ho imparato con lui a fare immersioni, a tuffarmi di notte nelle grotte. Dopo i miei studi ho lavorato in progetti ambientalisti, sulla protezione delle tartarughe in Guyana, a bordo di navi dell’Atlantico per studiare la vita delle balene. Il legame con la natura è fuoco sempre acceso dentro di me, anche se è una delle prime volte che lo esprimo in modo così frontale».