La Stampa, 19 febbraio 2022
Gli sfruttati del web
Torino
Fuori (algo)ritmo. Per anni chi lavora attraverso app e social media è stato visto dai più come una persona che godeva della libertà di poter stare ovunque si desidera, senza vincoli né orari. Non a caso gli adolescenti di oggi bramano di essere gli youtuber o i tiktoker di domani. La realtà è ben diversa, come evidenziato dal primo rapporto sui lavori digitali, a cura dello European trade union institute for research (Etui) di Bruxelles. Secondo cui il 17,4% della forza lavoro europea, pari a 47,5 milioni di persone, è impiegata nel web. Peccato che lo stipendio mensile non sia paragonabile a quello degli influencer maggiori. In media 250 euro al mese, per circa 10 ore di lavoro settimanali. Fra i Paesi peggiori, Italia e Bulgaria.
La pandemia di Covid-19 ha amplificato le diseguaglianze esistenti, e in modo significativo quelle dei lavoratori del web via app, come nel caso del cibo a domicilio o i trasporti paralleli ai taxi. L’analisi condotta da Ipsos per l’Etui rimarca come i mercati del lavoro digitali nell’Ue siano di dimensioni considerevoli e che «le piattaforme di lavoro digitali rappresentano solo una piccola parte di questo mercato». Ma, nonostante questo, sono sempre più utilizzate. Peccato che il lavoro sia nella maggior parte di tipo ripetitivo. «Le attività online più popolari che le persone svolgono sono una qualche forma di clickwork remoto», fa notare lo studio. «Quasi 10 milioni di persone nell’Ue (3,4% della popolazione in età lavorativa) lo fa su base mensile, seguite da 5,6 milioni (2%) che vendono articoli e 5,2 milioni (1,9%) che svolgono un lavoro professionale a distanza», spiega. E poi la prima evidenza fuori dalle previsioni: «Sorprendentemente, data la quantità di attenzione dei media che riceve, la più piccola attività su Internet è il trasporto, svolto da 1,5 milioni di persone su base mensile (0,5% della popolazione in età lavorativa)».
Il capitolo più spinoso è quello legato alle remunerazioni. L’Etui evidenzia come il salario in questo comparto sia «molto basso» e tale da mettere un lavoratore che dipende esclusivamente da esso «al di sotto della soglia di povertà». Inoltre,«anche il lavoro in piattaforma svolto su base settimanale è solitamente solo un lavoro secondario che fornisce un reddito supplementare e solo in circa la metà di questi casi viene svolto per più di 20 ore settimanali». In altre parole, lavorare via app non conviene, se non in caso di necessità.
A tal proposito, sono significativi i dati sull’Italia. I lavoratori del web sono il 12,4%, con una prevalenza (17,7%) nella fascia dei più giovani, fra i 18 e i 34 anni. Nel 24,3% dei casi sono a partita Iva, mentre il 10,3% è un dipendente e l’11,8% risulta essere fra i disoccupati. A preoccupare, però, devono anche essere i dati della fascia più corposa a livello assoluto, quella fra delle persone comprese fra i 45 e i 54 anni, che vale per il 28,5% del totale, e che conta per il 24,7% dei lavoratori in piattaforme.
Importante, in ottica di lungo periodo, è la questione dei diritti dei lavoratori. In tal senso, come spiegato da Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp, «l’adozione della direttiva sulle condizioni di lavoro nelle piattaforme proposta lo scorso 9 dicembre può rappresentare un importante punto di riferimento sovranazionale per regolamentare e tutelare il lavoro delle piattaforme». Un tema che, nella fase di ripartenza post pandemia, dovrà essere preso in considerazione. Secondo Fadda, «in tale nuovo contesto fino a cinque milioni e mezzo di lavoratori digitali in Europa potrebbero essere riclassificati come lavoratori subordinati, usufruendo così di alcuni diritti fondamenti finora negati». Riducendo quindi il fenomeno, evidenziato dai dati, del precariato digitale.