La Stampa, 19 febbraio 2022
Loggia Ungheria, lo show di Piercamillo Davigo
Lo show di Piercamillo Davigo non ha tradito le attese ma non gli ha impedito il rinvio a giudizio per rivelazione di segreto d’ufficio sui verbali sulla loggia Ungheria, ricevuti dal pm milanese Paolo Storari e veicolati irritualmente nel Csm nella prima metà del 2020 per «screditare il ruolo istituzionale e l’immagina personale e professionale del collega Sebastiano Ardita». Vanificando i tentativi della giudice Federica Brugnara di frenarne la facondia («Non capisco la pertinenza, aspetti un attimo, risponda alla mia domanda...»), il 7 febbraio l’imputato Davigo tiene banco per tre ore nel tribunale di Brescia.
In una ricostruzione non priva di lacune e contraddizioni, per difendersi alza il tiro sui vertici del Csm. In primis il vicepresidente David Ermini. «Ho riflettuto a lungo se potevo fidarmi di lui, perché la sua provenienza politica era la stessa di Lotti. Però avevo un buon rapporto. Un giorno mi abbracciò perché in tv avevo detto, come per il presidente Usa, che lui era anche il mio vicepresidente, anche se la sua elezione promanava da Magistratura Indipendente e Unicost, la sentina di Palamara. Riteneva che in qualche modo lo avessi legittimato. E poi aveva preso le distanze da quel gruppo di potere, perché in un’intercettazione Lotti diceva “Ermini è morto”, facendogli fare un figurone».
Ermini viene informato dei dirompenti verbali milanesi all’inizio di maggio 2020, di ritorno a Roma dopo il lockdown. «Gli dissi per telefono: ti devo parlare di una cosa urgente e importante. Contrariamente a quanto dice lui, non gli consegnai in prima battuta i verbali. Gli feci una sintesi della vicenda dicendo “ci sono nomi da paura, data la delicatezza è indispensabile informare il presidente della Repubblica”. Cosa che Ermini fece immediatamente. Chiamò il presidente, lo raggiunse e tornò».
I nomi
Ermini, sentito dai pm come testimone, fornisce una ricostruzione diversa e dice di aver cestinato i verbali senza leggerli. «Ma non è vero – obietta Davigo – perché me li ha chiesti lui. I verbali vengono in un secondo momento. Siccome era impressionato dai nomi, continuava a chiedermi “Ma c’è anche quello?” e io non me li ricordavo perché sono tanti. A un certo punto ho detto “Senti David, se vuoi te li do questi file stampati così non mi chiedi più i nomi”. Poteva rispondermi: “Non li voglio”. Invece li ha portati in uno stanzino che aveva dietro il suo ufficio e non ne abbiamo più parlato. Due mesi dopo siamo andati in vacanza insieme all’hotel Terme di Merano, quindi non era poi così turbato evidentemente… Comunque se li ha distrutti, essendo la prova del mio reato, dovete incriminarlo per favoreggiamento. Non mi consta che sia avvenuto. Sarebbe un illecito disciplinare (dei pm di Brescia, ndr), ma comunque…».
Il racconto di Davigo prosegue. «Non voglio dire cosa mi disse Ermini di ritorno dal Quirinale perché non è opportuno coinvolgere la presidenza della Repubblica in questa vicenda già brutta di suo. Ma se mi viene fatta la domanda diretta, rispondo che Ermini mi disse che il presidente gli aveva detto di ringraziarmi per le notizie fornite e che per il momento quelle notizie gli erano sufficienti, che mi avrebbe fatto sapere se fosse servito altro. Del resto mi sembra francamente inverosimile quanto dice Ermini, cioè che il presidente della Repubblica rimane lì come una statua. Se uno gli dice una cosa così, insomma...».
Il pm chiede di «altre interlocuzioni con la presidenza della Repubblica». Risposta: «Sì, ma non sono direttamente attinenti, tranne per una cosa di cui preferisco non parlare perché non voglio coinvolgere persone estranee. Da parte del presidente non ci sono state altre richieste di informazioni; dalla presidenza come istituzione non richieste di chiarimenti, ma notizie che mi sono state date in via informale da persona che non intendo nominare e che comunque è inutile dire perché non hanno rilevanza in questa vicenda».
Davigo riferisce poi dell’interlocuzione con il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, due giorni dopo quella con Ermini. «Gli dissi “Guarda, c’è una situazione assolutamente fuori controllo alla Procura di Milano, vedi di fare qualcosa”. Ebbi la sensazione che avesse già un’idea, perché non manifestò sorpresa. Mi diede una risposta che mi gelò: “Ma, sai, lì c’è anche gente perbene”. Pensai di fare una relazione di servizio, poi non la feci».
La decadenza
A ottobre 2020, Ermini e Salvi furono decisivi nel voto per la decadenza di Davigo dal Csm. «Fino a dieci giorni prima del mio compleanno si dava per pacifico che io sarei rimasto, tanto che durante una cena Ermini disse a tutti: “Oggi Piercamillo ha fatto il suo capolavoro: ha collocato a riposo il segretario generale e lui rimane”. Dopo il voto, Ermini era molto dispiaciuto. Se mi fosse stato ipotizzato che c’era un problema, mi sarei dimesso. Già non ci volevo andare al Csm, mi veniva il mal di stomaco alle 11 di mattina per le cose che vedevo». In realtà poi Davigo ha fatto (e perso) due ricorsi contro la destituzione. «Ho cambiato idea sulla loro buona fede», spiega al giudice.
Il pirotecnico interrogatorio è condito di aneddoti e frecciate velenose. Su Cosimo Ferri, «che ho visto crescere perché il padre, il ministro dei 110 all’ora, era mio amico e dormì su una brandina a casa mia, prima di interrompere i rapporti perché mi invitò a una cena con il piduista Elia Valori». Sull’avvocato generale di Milano Nunzia Gatto, «incapace di ragionamenti complessi». Sulla Procura di Milano «dove ormai accadono cose fuori dal mondo». Su un altro giudice di Brescia, che ha archiviato «perché ha fatto confusione» la posizione dell’ex procuratore di Milano Francesco Greco.
È solo l’antipasto del processo che comincerà il 20 aprile dopo la sentenza sul coimputato Storari, per cui la Procura ha chiesto una condanna a sei mesi di reclusione.