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 2022  febbraio 19 Sabato calendario

Ucraina, il conto economico di una guerra

Assuefatti a ogni orrore, immersi nell’irrealtà virtuale, osserviamo la guerra che avanza come fosse l’ennesima serie di Netflix. Non ci scuotono le granate Ags e Spg che piovono nei cieli del Donbass. Non ci inquietano i colpi di mortaio che fischiano più a Nord, verso il confine bielorusso. Non ci sconvolge l’immagine forse più agghiacciante di questa “ora più buia": lo Zar Putin, insieme ai suoi generali, che dagli schermi della “situation room” al Cremlino osserva orgoglioso l’esercitazione dei missili nucleari ipersonici Kinjal e Zircon, che lui stesso definisce “invincibili”. L’Orso russo gonfia i muscoli e li mostra al pianeta. Lo fa ogni anno, ma stavolta la prova di forza atomica è anticipata a febbraio, com’era accaduto solo nel 2014. Sarà stato un caso, ma di lì a poco i tank marciarono sulla Crimea.
Ora tocca all’Ucraina. Dopo giorni di strappi militari e ricuciture diplomatiche, siamo arrivati davvero a un passo dal baratro. Mettiamo pure da parte l’essenza del problema, e cioè il rifiuto etico della guerra. In termini di puro buon senso politico ed economico, una guerra contro l’ex repubblica sovietica guidata da Zelensky non “conviene” a nessuno. Eppure, l’inerzia dei fatti dimostra invece che una guerra è possibile, e a questo punto addirittura probabile. I potenti della terra, riuniti a Monaco per la conferenza sulla sicurezza, sembrano propensi a non ripetere oggi lo stesso errore che commisero nel settembre del ’38, quando in quella stessa città lasciarono che il Fuhrer, annessi i Sudeti, depositasse le sue uova avvelenate nel cuore d’Europa.
Per fortuna Putin non è Hitler, la Russia non è il Terzo Reich, l’Ucraina non è la Cecoslovacchia, il mondo di oggi non è quello di 84 anni fa. Nonostante questo, al contrario di quanto fecero allora Chamberlain e Daladier di fronte all’invasione tedesca, i leader occidentali non cedono alla provocazione russa. Lo dice Ursula von der Leyen, per conto della Ue: se la Russia attaccherà “imporremo costi elevati e gravi conseguenze a Mosca”. Lo ribadisce Kamala Harris, per conto dell’America: la nostra risposta sarà “massiccia, rapida” e soprattutto “condivisa da tutti”.
È la cosa giusta da dire. Quanto al fare, tutto si complica, se Vlad il Matto prevale su Putin il Razionale. Finora la “guerra ibrida”, fatta di escalation militari, hackeraggi informatici e “disinformatsija” politica, aveva strapagato: portandogli in dote una chiara legittimazione a sedersi al tavolo in cui si discute di sicurezza globale e di armamenti e, se non la ricostruzione lungo le sue frontiere della sfera di influenza strategica dell’era sovietica, almeno il rinvio dell’ingresso ucraino nella Nato. Bottino tutt’altro che magro, che si accompagna a una politica estera più aggressiva che assertiva nel Mediterraneo e in zone di interesse cruciali come la Siria e la Libia, il Mali e il Centro-Africa. Perché l’Autocrate di Mosca debba passare adesso alla “guerra calda” è incomprensibile. Un’offensiva su Kiev è un ricostituente per i suoi nemici: rianima Biden in crisi di consensi a pochi mesi dal voto di MidTerm, ridà fiato a una Nato a corto di strategie e di risorse, ricompatta un’Europa che finora ha vissuto di missioni impossibili e improbabili dei suoi singoli, da Macron a Scholz, e domani o dopodomani sarà anche la volta di Draghi.
Ma nel Disordine Mondiale in cui viviamo non sempre ciò che è razionale è reale. L’Ovest è obbligato a rispondere alle fratture dell’Est. E la risposta non può che essere multipla. Militare, attraverso l’Alleanza Atlantica. Economica, attraverso le sanzioni. E già qui le divisioni tra Usa e Ue e tra i singoli Stati dell’Unione rappresentano un gigantesco ostacolo. Tra le sanzioni sarà compreso anche lo “Swift”, cioè il divieto di accesso per i russi ai circuiti bancari e finanziari, eventualità che allarmerebbe una parte di operatori americani? E sarà colpito anche il mercato del gas, cosa che metterebbe in crisi mezza Europa, che importa il 90 per cento del suo fabbisogno attraverso i metanodotti russi? Quel che è certo è che l’Ucraina è diventata suo malgrado uno stress test cruciale per ridefinire gli equilibri geostrategici della fase. Per un Occidente che prova a rialzare un muro alle mire espansionistiche di Putin, c’è uno Xi Jinping che aspetta di capirne l’entità e l’efficacia, per poi ridefinire le sue. A Monaco il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ripete che Pechino “è per la tutela della sovranità e l’indipendenza di tutti i Paesi, e l’Ucraina non fa eccezione": ma poi aggiunge che “le preoccupazioni della Russia devono essere rispettate”. Anche se Putin soffre il ruolo di junior partner di Xi, è evidente che le due grandi autocrazie post-imperiali si schierano contro le democrazie liberali. Ed è ancora più chiaro che la Cina aspetta solo di capire se l’America, dopo aver abbandonato al suo destino Kabul, adesso è davvero pronta a morire per Kiev. Perché se questo non accadesse, la prossima mossa che dobbiamo aspettarci sullo scacchiere indo-pacifico è che Xi Jinping dia via libera all’annessione di Taiwan. E allora le prospettive della pace si farebbero ancora più fosche.
Nel conto economico, chi ha più da perdere con la guerra siamo noi italiani. Le sanzioni già decise dopo l’invasione della Crimea hanno già dimezzato il nostro export verso Mosca, sceso e poi risalito a quota 11 miliardi. Ma il prezzo più alto lo stiamo già pagando con la bolletta energetica. Il nostro prezzo netto dell’elettricità è il secondo più alto d’Europa. Per l’industria, 225 megawattora, di poco più basso di quello spagnolo ma del 35 per cento più alto di quello tedesco. Pesano lo scarso mix energetico dei nostri approvvigionamenti, la dipendenza quasi totale dal gas russo, la pressione fiscale sull’energia (41 per cento, la più alta della Ue). Vuoti che non si riempiono in pochi mesi. L’ultimo decreto del governo ci ha messo una toppa da 6 miliardi. Siamo il Paese che, con 16 miliardi di interventi complessivi, ha speso più di tutti per neutralizzare il caro-bollette su famiglie e imprese: l’1 per cento del Pil, rispetto allo 0,7 della Francia, lo 0,53 della Spagna e lo 0,24 della Germania. Ma Pantalone non paga in eterno. In sedici mesi abbiamo varato sette scostamenti di bilancio, per un importo complessivo di 185 miliardi. Allargare ancora i cordoni della borsa è impensabile.
Ma questo chiama in causa la politica, che a maggior ragione in un mondo sulla soglia della guerra dovrebbe mostrarsi capace di quel colpo d’ala che aspettiamo da tempo. Non c’è limite all’incoscienza dei partiti, che in Parlamento sfasciano la maggioranza a colpi di geometrie variabili o dopo il Consiglio dei ministri bombardano il quartier generale di Draghi chiedendo ogni volta un “più uno” rispetto a quello che si è appena approvato (vedi M5S e Pd sulla riforma Cartabia o Lega e Fi sul decreto energia). E se il premier alza la voce, e dice “così non si può andare avanti”, non lede nessuna maestà. Chiede solo responsabilità. Va garantita. Anche in un anno elettorale. E soprattutto in un momento di gravissima tensione internazionale. A chi oggi dubita di questo governo, e magari sogna elezioni anticipate, viene da chiedere come si troverebbe oggi l’Italia, se a guidarla ci fossero ancora i gialloverdi del 2018. Un vicepremier pentastellato, che tesseva la tela delle Vie della Seta con Xi, e un vicepremier leghista che a Mosca diceva “qui mi sento a casa mia, in altri Paesi d’Europa no”. Questo eravamo allora, e per fortuna non siamo più.