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 2022  febbraio 20 Domenica calendario

Biografia di Franco Branciaroli raccontata da lui stesso

Un pomeriggio catanese di Franco Branciaroli: “Dormo, rotolo nel letto, mi sveglio, prendo un caffè, ridormo, leggo, vado a correre, mangio. E aspetto”.
Aspetta di salire sul palco, come accade da oltre cinquant’anni; cinquant’anni di tournée, grandi maestri, da Luca Ronconi a Carmelo Bene (“che sbronze con lui. Che nottate”) e con qualche intoppo (“ho lavorato pure con dei registi-cani”); cinquant’anni di teatro, eppure la fama (“ma no, fama è eccessivo”) è giunta come attore feticcio di Tinto Brass: La chiave, Miranda, Così fan tutte, L’uomo che guarda e Senso ’45 hanno lui, i suoi ricci (“Antonioni li detestava”) i suoi occhi e soprattutto “il mio uccello” come denominatore comune.
Ora ha pubblicato il suo primo romanzo, La carne profonda, scritto con una prosa spesso raffinata, a volte roboante, sicuramente non comune, dove alterna scene di vita comune a descrizioni di sesso talmente dettagliate da accarezzare la pornografia.
Quindi aspetta il “su il sipario” senza tensione.
Forse un tempo, ma da vecchio sparisce; (sorride) l’unica tensione è sulla memoria: magari temo di non ricordare una battuta.
Davvero si sente vecchio?
Io sono vecchio: ho 74 anni.
Il romanzo non è da vecchio.
C’è uno scrittore, Theodor Fontane, che per tutta la vita non ha realizzato niente di particolare, poi a settant’anni ha sparato fuori Effi Briest, un libro eccezionale. Quindi può succedere, ma la mia forza è la lingua: sono stato un attore di (Giovanni) Testori e ho vissuto da vicino cos’è la creazione.
Cosa le ha insegnato?
Secondo lui il futuro della letteratura era quella erotica perché tiene conto del teatro; anche il mio libro è una pièce.
Quanto ha impiegato a scriverlo?
Non sono un professionista alla Thomas Mann, con orari e liturgie: sono un attore, quindi ho utilizzato i momenti di ispirazione, quelli di pausa dalla scena e il lockdown.
Quindi?
Circa quattro anni; (pausa) lo so, avrebbe bisogno dell’occhio di un editor, perché ha degli scompensi.
Chi lo ha letto cosa le dice?
Ovviamente molti mentono.
E poi?
Prima di trovare un editore, il mio errore è stato quello di affidarlo a un celebre scrittore: “Tranquillo, ci penso io”. E invece due mesi di silenzio.
Lì cosa ha capito?
Che gli ha dato un po’ fastidio, e allora poteva essere interessante.
Le parti erotiche sono molto forti.
Fortissime! (pausa) Molti scrittori, tipo Roth, utilizzano l’erotismo e la figa per narrare altro, e visti i tempi dove il porno è ovunque, non mi sembra nulla di scandaloso. Altro che settant’anni fa.
Cosa?
Per sapere com’era l’organo femminile…
Ora siamo all’organo femminile. 
Ha ragione, ricominciamo: negli anni Cinquanta per sapere com’era la figa non c’era mezzo. Niente film. Foto. Internet. Al massimo dovevi ricordarti di com’erano le bambine quando giocavi con loro.
La soluzione?
Ho aspettato paziente; sono nato in mezzo alle risaie, da noi c’era una ragazza chiamata la “Mora del bosco”, e una mattina mi ha chiamato in casa e l’ha mostrata a mo’ di provocazione: “Guarda qua”; (cambia tono, abbassa la voce) poi nella vita non è mancata occasione, visto il ruolo con Tinto Brass.
Cinque film…
In un certo senso mi sono specializzato.
Com’è nato il binomio?
Tinto frequentava i teatri di posa e a fine anni Settanta mi ha visto mentre giravo un film con Michelangelo Antonioni: “Vieni da me, ti faccio un provino”. Era perLa chiave.
Che tipo di provino?
Dovevo parlare in inglese, e non lo conosco, così inventai una lingua alla Alberto Sordi. Preso. E siccome La chiave ha incassato una valanga di soldi, allora Tinto mi ha elevato a portafortuna.
Lei si mortifica.
No, è la verità, perché nei film di Brass gli uomini non contano molto; (ride) comunque mi ha sempre voluto.
Per qualche anno è stato un uomo molto invidiato.
In qualche modo sì; me ne accorgevo in particolare al Sud: un giorno prendo un taxi, l’autista inizia a fissarmi dallo specchietto retrovisore, fino a quando con un brandello di coraggio, misto ad ammirazione, esplicita le sue riflessioni: “Scusi, lei è… lei è… lei è quello”. “Chi?” “Eh, quello che… eh eh eh… ho visto, li ho visti tutti!”
Appunto, eroe…
Il bello è che i film di Brass non viaggiavano solo al cinema, ma venivano celebrati dalle videocassette: quello con Claudia Koll (Così fan tutte) è stato primo in classifica per tanto tempo.
La Koll è diventata una suora laica. È stupito?
La vita è straordinaria per questo: allora nessuno avrebbe scommesso su questa conversione, però nel Vangelo c’è anche la Maddalena, quindi è una sorta di topos.
Sul set di Brass si è mai imbarazzato?
Non secondo quello che si può immaginare.
Tradotto?
Il problema non era la nudità, ma sbagliare il colpo.
Traduciamo ancora?
Certe volte, durante le riprese, sotto le coperte avrei voluto tentare un reale approccio sessuale, però l’arma non funzionava; (silenzio) insomma, non mi tirava l’uccello.
Si faceva realmente sesso…
(Tono addolorato) A me non funzionava.
Troppa gente sul set.
Non era quello, forse il contesto generale: ci infilavamo nel letto e quel letto si tramutava in una piazza dove si viveva la quotidianità, compreso ricevere il cestino del pranzo, mangiare e ritrovarsi le briciole sparse
Sempre a letto.
Sì, e proprio l’assenza di imbarazzo, il rendere tutto così fruibile, mi disinnescava.
La partner con la quale si è trovato meglio?
Stefania Sandrelli e Claudia Koll; la Sandrelli era una quarantenne perfetta; era come il sole al tramonto: avvolta da quella luce magnetica.
Da lì è ripartita la sua carriera.
Possedeva la capacità rara di passare dalla vita al set senza discontinuità, con grande naturalezza; lei non cadeva nell’errore di osservarsi, errore deleterio per l’attore di cinema; (pausa) per questo non sono un granché davanti alla macchina da presa.
Cioè?
Non ho mai girato grandi film, non è il mio mezzo e alla fine ho mantenuto meno di quello che promettevo al regista e per questo difetto; (cambia tono) Antonioni sosteneva: “Gli attori anglosassoni non recitano, vivono. Ci vuole una certa ingenuità, anche stupidità per risultare grandi interpreti del cinema”.
È vero?
Ha una sua logica: gli attori statunitensi non hanno alcun complesso, mentre i latini hanno spesso una sorta di coscienza sporca che auto-controllano.
Mentre in teatro?
Sono un re. Sono a mio agio. E non ho paura di niente.
Le dispiace venir inquadrato per il cinema?
Oramai non mi riconosce nessuno, è capitato giusto per un periodo degli anni Ottanta.
Le piaceva?
No, sorridevo pensando al motivo della mia fama; non mi fermavano per l’interpretazione, ma perché davo al cinema la parte migliore di me.
Qual è?
L’uccello.
Brass quasi non la cita nella sua biografia.
È normale, con lui i maschi erano accessori.
Su Senso ’45 Brass racconta degli intoppi con la Galiena.
Già sul set non era molto contento e infatti è il film che ha chiuso la carriera di Tinto; ricordo che quando la Galiena prese una brutta storta alla caviglia, lui era tutto felice alla sola idea di poter interrompere le riprese. E invece l’assicurazione coprì tutto e gli toccò concludere.
Lei ha recitato con la Vitti e per Antonioni.
Il mistero di Oberwald è stata una toppa tremenda, con un incasso pessimo; in realtà, lì, Antonioni ha tentato un esperimento tecnico: è il primo film girato in video e poi riversato su pellicola, tanto da mettersi contro la Kodak.
Lei e Antonioni.
Non gli piacevano i miei ricci, li definiva “retorici”; giravamo in Tirolo e ogni tre giorni, da Roma, arrivava in aereo un parrucchiere solo per stirarmi i capelli; per questo la notte dormivo alla egizia, con il collo sollevato, in modo da non poggiare la testa; lavorare con lui è stato eccezionale e dopo le riprese, a cena, sparava delle massime sensazionali.
Tipo?
Una sera definì Kubrick “bravino”: per lui il vero grande regista doveva essere anche autore della sceneggiatura originale.
La Vitti?
Aveva un suo mondo, dotata di un carattere forte, non dolce e con Antonioni giocava alla pari, tanto da imporre i costumi che desiderava anche se non erano perfetti per il periodo storico; (pausa) a cinquant’anni ne dimostrava 35 e da vicino aveva un viso bellissimo.
Secondo alcuni suoi colleghi il palcoscenico è una droga…
Per me no; (ci pensa) può anche risultare un luogo di dannazione, basta infilarsi dentro uno spettacolo di merda ed essere costretto a portarlo in giro per 120 sere, e magari doversi sbronzare per dimenticare.
Le è capitato spesso?
Può succedere, perché in Italia lo spettacolo si vende prima della messa in scena; per fortuna ora sono in giro con Umberto Orsini e con un bellissimo lavoro.
Si è mai tirato indietro?
Giammai, e se il regista è un cretino, come può capitare, è bello eseguire le sue indicazioni: è comunque un impegno. È una prova. E l’obbedienza ha un lato erotico.
È stato megalomane?
Quello mai.
Comunista?
Neanche, però sono cresciuto con un nonno socialista e suo fratello comunista e becchino di cimitero che lo voleva uccidere e girava con un’accetta infilata nei pantaloni.
Liti per questioni politiche?
Un po’, ma soprattutto perché mio zio ricomponeva i cadaveri dei tedeschi e invece di utilizzare l’alcol per non rischiare epidemie, lo rivendeva sottobanco. È diventato ricco. E mio nonno non era suo complice.
Torniamo a teatro: ha lavorato con Carmelo Bene…
(Inizia a parlare come Bene e lo imita in maniera magistrale. È nella sua testa) Non ci ho mai litigato, anzi non ho mai litigato con nessun teatrante.
Caso raro.
Era come un fratello maggiore; sosteneva che ho avuto la faccia da culo di salire sul palco insieme a lui.
Lui che è apparso alla Madonna.
Con Carmelo mi sono veramente divertito e quanto ho bevuto… Che sbronze.
Anche in scena?
Proprio lo spettacolo lo prevedeva: era il Faust prodotto dallo Stabile di Torino e in scena c’era un piccolo bar dove ogni sera aprivamo due bottiglie di champagne Krug; non solo: prima del sipario, in camerino, Carmelo stappava una bottiglia di vino da associare al miele.
Da star male.
Secondo lui era fondamentale per la gola, così alternava un bicchiere a un cucchiaino: salivamo in scena alticci, sul palco altra botta e tutto si concludeva con la cena alcolica. (sorride) Carmelo era capace di far aprire apposta il ristorante e pagare cifre folli.
Folli perché andavate avanti a Krug…
No, se il ristorante era chiuso, chiamava il proprietario: “Di quanti coperti garantiti avete bisogno? Dieci? Va bene” Allora pagava per tot persone quando in realtà eravamo solo in due; finita la cena andavamo in giro con la sua (Citroën) DS 21, guidata da me, e fino alle 5 del mattino.
Ci vuole il fisico. 
Infatti ero diventato grassottello come Renato Pozzetto e dormivamo fino alle cinque del pomeriggio.
Quanto si è divertito?
Uno se ne accorge o lo capisce sempre dopo e oggi posso dire che è stato bello.
Lei chi è?
Mah, non c’è risposta; sono come un mare piatto con molti pesci sotto.