il Giornale, 20 febbraio 2022
Quando Banine incontrò Jünger
Il gancio fu «un certo Wilhelm Blanke». Tedesco, rapido, ambiguo, nella Parigi occupata faceva il doppio gioco: era «legato a un gruppo della Resistenza francese». Nel giugno del 1944, «pochi giorni prima dello sbarco degli Alleati», tradito da una soffiata, sarebbe stato arrestato e fucilato dai nazisti. Fu Blanke, al Majestic, ricovero di alti ufficiali e di spie, a dirle che Ernst Jünger, l’eroe della Prima guerra, il magnetico autore delle Scogliere di marmo, viveva, come un asceta o un ascetico libertino, all’Hotel Rapahël. «Fui presa dal desiderio di scrivergli». E gli scrisse.
Nata Umm-El-Banine Assadoulaeff, a Baku, nel 1905, da una famiglia di magnati, aveva poco meno di quarant’anni, a Parigi la conoscevano semplicemente come Banine, di profilo la sua bellezza era rude, immediata, arresa. Era arrivata in Francia negli anni Venti, posava per alcune case di moda, frequentava l’alta società e gli alati scrittori dell’epoca. Pare che André Malraux l’abbia intimata a scrivere; quindicenne, l’avevano sposata a un avvocato molto più grande di lei, che lei, dopo una manciata di anni, mollò, a Istanbul. Era audace. Ma incline all’abisso. Incuriosito, avido, solo, Jünger le telefonò; si incontrarono, la prima volta, il 2 aprile del 1943, «fui colpita dal suo aspetto fragile... così poco marziale», ricorda lei, in Incontri con Ernst Jünger, pubblicato da Julliard nel ’51, ora in Italia grazie a De Piante Editore e all’Associazione Terra Insubre (pagg. 136, euro 20; traduzione di Émil Ronìn, introduzione di Angelo Crespi).
Banine traccia di Jünger un ritratto nel bronzo, esigente per idolatria: «Intorno a lui aleggiava un’atmosfera indefinibile, ma non meno glaciale... Aveva un bel volto... il naso sottile e lungo, lo sguardo nitido, la bocca ben contornata, tutto in lui era nobile, e tutto era racchiuso nella stessa aria pensierosa... o distante». Non apprezzava Marcel Proust, aveva incontrato Céline a casa di Paul Morand, «era di una bontà assoluta». All’interlocutrice confessò «il suo disgusto per il nazismo»: riteneva ogni incontro un’ultima volta, una fuga.
Si videro di rado, con foga, nell’atmosfera eccitante e cruda della Parigi occupata: prima di partire, tra i miasmi della disfatta tedesca, le inviò una fotografia; quando lei riuscì a spedirgli I miei giorni nel Caucaso, il suo grande libro (edito nel 1945, in Italia è uscito nel 2020 per Neri Pozza), lui rispose, «Mi farebbe piacere ricevere una sua immagine da inserire tra le pagine». Viveva di ombre, di simboli, di strane ritrosie, ormai, Jünger; la morte del figlio, sul fronte italiano, lo aveva squassato, «Mai, prima d’ora, era stato colpito così duramente». Gli antichi amici di Parigi si erano dileguati, in quel clima da primo giorno, dove tutti miravano a stanare collusi e «collabò»; in Germania plumbee accuse assediavano Jünger, «malvisto dai nazisti, malvisto dai loro nemici». Aristocratico al mondo, capace nel candore e nell’arte, verticale, della sprezzatura, Jünger «sopportò con serenità... perfino davanti a un uomo abietto, egli pensava che forse questi esisteva proprio per metterlo in guardia contro un’altra versione di sé stesso».
Nel novembre del 1948 si videro a Tubinga. Visitarono la tomba di Hölderlin; Banine incontrò un uomo «molto dimagrito», dal volto «completamente emaciato e gli occhi vi risaltavano ancor di più, con il loro sguardo meraviglioso». Gradiva il disastro, le disse, «il ruolo di sconfitto mi si addice meglio di quello di vincitore, almeno dal punto di vista morale».
Banine si accorse che Jünger alloggiava in un mondo di marmo e d’incanto, disincarnato, che il suo sorriso celava la ferocia di chi può fare a meno di tutto. Nel luglio del 1950 gli scrive, con dissennata assolutezza: «Sono ancora la tua schiava? Ho paura che lo resterò per il resto della mia vita, qualunque cosa accada, anche se altri uomini entreranno nella mia vita, anche se mi risposassi». Nel suo Journal, di viscerale violenza (in Italia è passato per l’editore Massimo, nel 1965, come Ho scelto l’oppio), Banine esplicita la propria delusione. «Quest’uomo distante, freddo, inaccessibile, non aveva altro da offrirmi che lettere, a malapena amichevoli. Sapevo che mi stavo consumando per una chimera, che avrei dovuto ucciderla per tornare a una vita normale. Fui incline all’insonnia, non dormivo quasi più», scrive, riferendosi, in un paravento di allusioni, all’ombra cannibale di Jünger. Si avvicinò, per contrasto, a Henry de Montherlant, che, a differenza di Jünger, era sapiente nel disprezzo. Claustrofobia del caso: nel 1981, a casa di Jünger, Bruce Chatwin scopre un foglio, c’è scritto «Il suicidio fa parte del capitale dell’umanità». La calligrafia è di Montherlant, l’aforisma è di Jünger, il foglio è macchiato di sangue: stava sul tavolo su cui si è ucciso lo scrittore francese, sparandosi alla gola, il giorno dell’equinozio d’autunno del 1972.
Abiurando l’Islam, Banine si era fatta battezzare come cattolica nel 1956, «Amare gli spettri: a cosa serve? Tanto vale conficcarsi in un convento, fidanzarsi con Gesù», aveva scritto. Tuttavia, continuò a fare di Jünger il proprio dio: nel 1971, per La Table Ronde, pubblica Portrait d’Ernst Jünger; nel 1989 per L’Âge d’Homme stampa Ernst Jünger aux faces multiple. Morirà tre anni dopo, in ottobre; «ha vissuto come la protagonista di un romanzo, ha attraversato il secolo attirando, come un magnete, le più singolari figure del proprio tempo», la ricorda il devoto redattore del quotidiano Le Figaro incaricato di redigere il suo «coccodrillo». Di Jünger la impressionavano le mani, «intelligenti e sensibili, come il suo viso». Gliele avrebbe volute mozzare, forse, impaniarle nell’argento, ricavandone amuleti per l’aldilà. L’ultima volta che si erano visti, lui le aveva chiesto notizie «della paulonia sulle mie finestre».