Corriere della Sera, 19 febbraio 2022
Il seno di Laura
Puttana o sposa? Ninfetta o dea? Ritratto o allegoria? Un’infinità di interrogativi, altrettante ipotesi interpretative, nessuna certezza. Laura, insomma, chi è?
L’unico dipinto autografo di Giorgione è un figura di donna carica di enigmi irrisolti, come tutto ciò che attiene alla vita e all’opera del maestro della Tempesta. Nell’olio datato 1506 e custodito a Vienna, in quel tempio all’irrefrenabile passione collezionistica degli Asburgo che è il Kunsthistorisches Museum, si incrocia una fanciulla, le gote paffute, lo sguardo inafferrabile, le labbra increspate, nuda sotto un manto purpureo foderato di morbida, lucente pelliccia. Con la mano ne scosta un lembo per mostrare senza malizia un seno turgido e niveo. Alle sue spalle – analogamente al ginepro nella Ginevra de’ Benci di Leonardo – prorompono rigogliosi rami d’alloro (il laurus latino), probabile allusione al suo nome. Pianta sacra, sempreverde, simboleggia il trionfo e la sapienza; corone d’alloro cingevano nella Grecia antica il capo di atleti e, nel Medioevo, di poeti.
Laura potrebbe essere, dunque, una poetessa o la donna amata da un poeta; la Laura cantata dal Petrarca, per esempio, anche se quella era angelicata e questa, graziosamente scostumata. Oppure essere proprio una cortigiana, come suggerirebbe la cappa di pelliccia, indossata all’epoca dalle professioniste veneziane del piacere. O forse – questa l’ipotesi oggi condivisa dalla maggior parte della critica – essere l’esatto contrario: la promessa sposa nel dipinto augurale realizzato per un matrimonio. Magari proprio quello del committente, quel messer Giacomo Anselmo citato nell’iscrizione sul retro della tavola, che di mestiere pare facesse il pellicciaio. Il tulle è il velo nuziale, il seno scoperto il luogo metaforico dell’intimità e l’alloro la virtù come nel mito di Dafne, la ninfa tramutata in pianta per non sottostare alle brame di Apollo.
Tout se tient. Ma le congetture circa l’identità della giovane non si esauriscono qui. C’è chi ha avanzato l’immagine di Flora, signora della primavera e chi, fantasiosamente, ha considerato il ruolo dell’amante, a margine della riflessione sulle diffuse pratiche extraconiugali, alimentate dall’alta percentuale di matrimoni combinati. Idea suggestiva che, però, «pone non pochi problemi, primo fra tutti quello di dove queste immagini sarebbero state collocate: a casa del marito fedifrago o in quella dell’adultera?», si chiede Enrico Maria Dal Pozzolo nel saggio illuminante che in catalogo dedica a Laura.
Il titolo viene assegnato all’opera nel diciassettesimo secolo; l’autore non ne fa menzione quando firma il capolavoro come Giorgio; l’accrescitivo di Giorgione, informa il Vasari nelle Vite, gli derivò, per simpatia, «dalle fattezze della persona e da la grandezza dell’animo». Qui, invece, c’è tutta la grandezza del pittore.
Che inventa un nuovo modo di rappresentare le cose del mondo. Non più con il disegno, ma con la luce e il colore, attraverso velature sottili e graduali passaggi di tono, fino a sfumare morbidamente le forme nell’atmosfera. È quella rivoluzione tonale, che distingue tutta la pittura veneta del Cinquecento. Pittura di pura poesia dello sguardo.