Corriere della Sera, 19 febbraio 2022
Intervista ai gemelli D’Innocenzo
I gemelli D’Innocenzo hanno 33 anni e hanno firmato tre film di successo anche per come restano addosso con le loro domande inquietanti. La terra dell’abbastanza, Favolacce e America Latina, che è ancora al cinema, protagonista Elio Germano, hanno vinto un Orso d’argento a Berlino e tre Nastri d’argento. I copioni sono ora riuniti in un volume, Trilogia, in uscita oggi per La nave di Teseo. Damiano ha una t-shirt a maniche corte con la scritta Bambi, Fabio una felpa pesante da montagna. Damiano ha la barba corta, Fabio ce l’ha lunga da montanaro. I visi, però, sono identici. Rispondono a turno, una domanda ciascuno e senza mai sovrapporsi, come se aggiungere qualcosa a ciò che l’altro ha detto fosse escluso, come se la risposta di uno bastasse sempre per due. Damiano disegna incessantemente qualcosa su un foglio, alza la testa solo quando tocca a lui parlare (che cosa disegna? «Volti di uomo con baffi, facce non volute, parto dal naso e vado avanti»). Fabio guarderà sempre altrove (che cosa guarda? «La chitarra della mia ragazza»).Ora, siete i gemelli geniali del nostro cinema, ma come eravate considerati nei dieci anni in cui tutti respingevano i vostri copioni?
Damiano: «Quasi ragazzi di strada, data la provenienza di periferia. Non siamo l’elogio della normalità, che mi sembra un modo astuto e bieco per camuffare la mancanza di idee, e sentivamo la volontà di semplificarci, etichettarci. La nostra bravura è stata fregarcene. Credo che quelle sceneggiature non venissero neanche lette, neanche ci guardavano, eravamo fantasmi che consegnavano fogli stampati. Non lo dico con rabbia: eravamo giovani senza cognomi, scuole, raccomandazioni ed era difficile avere tempo per noi. Faceva male, però».
Qual è stata la svolta per produrre «La terra dell’abbastanza», la storia di Mirko e Manolo, i due bravi ragazzi di periferia che s’inventano criminali?
Fabio: «Spendere dieci anni a cercare di migliorarti può produrre, oltre che una scorza dura, una probabile capacità di riuscita. A furia di bussare, la porta si è rotta e siamo emersi contribuendo a Dogman di Matteo Garrone. Lì, i produttori hanno associato la sua grandezza all’idea che i nostri copioni potessero essere letti».
Davvero cambiavate i titoli per mandarli agli stessi produttori che avrebbero continuato a non leggerli?
Damiano: «Sì, ma rimaneva uguale il silenzio. Uno ci convocò solo per sincerarsi che non fossimo una sola persona che si spacciava per coppia, non per proporci un film. La gemellanza è stata una forza, ma ai tempi, ci ha penalizzato perché sembravano più strambi. Ora, invece, essere gemelli è bello, è poetico, siamo testimonial di Gucci».
Vi siete definiti stalker di registi e affini.
Fabio: «Garrone l’abbiamo intercettato al ristorante, da fan. Poi, è diventato quello a cui abbiamo scritto di più: gli abbiamo mandato le nostre cose; alla fine, ci invitò a casa sua».
Chi sono i gemelli D’Innocenzo che cominciano a buttare giù sceneggiature?
Damiano: «Ho vissuto infanzia e adolescenza quasi sotto ipnosi, in uno stato di nebbia… Non mi sono mai sentito coetaneo agli scolari, mi sono trovato bene con gli anziani, con quell’esistenza un po’ arresa ma non pessimista, solo uscita dalla performance quotidiana: quando si abbandona l’idea del risultato, si può diventare un po’ felici. Mi aiutava l’intima convinzione che non mi sarei sentito sempre sbagliato».
Perché avete fatto l’alberghiero, come Mirko e Manolo?
Fabio: «Era la scuola che richiedeva meno abnegazione, così avevamo più tempo per le cose che ci interessavano: lettura, scrittura, musica».
Si è detto che siete figli di un pescatore, anzi di un giardiniere, no, di uno sceneggiatore. Avete raccontato d’aver lasciato Tor Bella Monaca a sei anni «perché c’erano morti ammazzati e droga in famiglia», poi avete detto che il vostro passato viene dipinto più noir di com’è. Perché tante leggende?
Damiano: «Ho notato con un po’ di divertimento questo travaso di informazioni o cose mai dette. Abbiamo avuto casi laterali in famiglia di perdite legate ad abusi di droghe negli anni 70 e 80, ma di qui a farne una narrativa… Papà ha fatto tanti lavori e ha scritto sceneggiature in copia unica a mano, solo per farle leggere a moglie e figli e questo è un atto di grandissima vitalità. Mamma è stata sempre a casa, ma ha scritto poesie bellissime. Essere arrivati dal nulla ha fatto sì che circolassero esagerazioni».
Se l’istante in cui capite che volete fare cinema fosse la scena di un film, come sarebbe?
Fabio: «L’aggettivo che mi viene in mente è pudore. Ricordo a 14 o 15 anni, nel controcampo, la mia schiena curva che scriveva e io che non volevo deludere il giudizio più importante: quello di mio fratello. Ricordo la sana emozione quando ci consegnavamo i copioni a vicenda: il suo “non è buono” mi avrebbe fatto cambiare idea».
Come e dove nasce il lato oscuro dei vostri personaggi?
Damiano: «Per me, il male sta dove non sta la donna. Nel ventennio berlusconiano in cui siamo cresciuti, abbiamo visto l’oggettivizzazione plastica della donna, come se dovesse scordarsi il proprio inferno per attraversare quello del maschio ed essergli sottomessa. Nei nostri film, tutti gli uomini hanno un rapporto conflittuale con la madre, figlia, compagna e non sanno approfittare del punto di vista della figura femminile. Siamo cresciuti con una tv di ragazze valutate in base al corpo, in completa assenza della pietas, della tenerezza delle femmine. Da ragazzini, per questa sensibilità, venivamo apostrofati come froci o checche, cosa che ho sempre visto come un complimento».
«Favolacce» è la vostra prima sceneggiatura, ma la seconda che vi hanno fatto girare. Cosa spaventava di quella storia di bambini non a lieto fine?
Fabio: «Le poche risposte, tutte negative, individuavano il pericolo nell’essere poco rassicurante, molto scura. C’è un modo di vendere il mondo omologato alla catena di montaggio della serenità, del buonumore. Noi invece cerchiamo di mettere lo spettatore davanti a qualcosa sulla quale non aveva riflettuto, di prenderlo di sorpresa e farlo diventare un po’ nervoso».
Gabriele Muccino, quando eravate candidati ai David, twittò: non sono ancora riuscito a finire «Favolacce», sarò poco intelligente o cinefilo per comprenderne la grandezza?
Damiano: «Anche solo che l’abbia detto in modo così plateale rende la sua affermazione giovanile, nel senso che gli sbagli testimoniano lo stare in vita. Dopo, ci siamo abbracciati, ne abbiamo sorriso. C’è invece una silente fazione, più pericolosa, che vuole che il cinema resti vecchio e, se può farti arretrare, lo consente».
A posteriori, che senso vedete nella «Trilogia»?
Fabio: «Ci riconosco il me bambino, ragazzo, giovane, che voleva alzarsi da tavola per dire la sua che non sarebbe stata capita. I temi sono la caduta morale e gli errori prodotti dall’incapacità di immaginare una mascolinità diversa da quella tossica, aggressiva. In Favolacce, i bimbi erano inebetiti da quello che vedevano. Nella Terra dell’abbastanza, c’è il passaggio all’adolescenza, la mescolanza fra essere vittima di qualcosa ed esserne parte. In America Latina, c’è l’Italia degli adulti, ci siamo noi che capiamo che le cose che facciamo cambieranno noi, ma non cambieranno il mondo. Bellissima lezione».
È stato scritto che il terzo film sarebbe stato un western al femminile, poi che ne stavate girando uno a Los Angeles su un kamikaze o che pensate a un western picaresco con Sergio e Pietro Castellitto. Cosa c’è di vero?
Fabio: «I progetti vanno in stand by o ripartono per mille motivi. Ora, lavoriamo a una serie per Sky Europa in sei puntate, Dostoevskij, di cui è prematuro parlare».
Non frequentare una scuola di cinema è stata una scelta ideologica o di necessità?
Damiano: «Anche se ci avessi creduto, non avremmo potuto permettercela».
Due anni fa, avete pubblicato un libro di poesie. In «Fratello», scrivete «normale come sputarsi addosso / hai visto, fratello? / Ci siamo scazzottati». Voi vi siete scazzottati?
Fabio: «La gemellanza è un rapporto molto passionale che è sempre in bilico col melodrammatico. Ci sono persone che si vogliono estremamente bene e non si negano l’onestà anche di arrivare a fare a botte».
L’ultima volta?
Damiano: «Negli anni in cui le cose ci sfuggivano di mano e l’unico modo di sfogare la rabbia era uno sull’altro. Rispondevamo coi colpi sul nostro corpo ai colpi che il mondo dava a noi».
Quali colpi vi dava il mondo?
Damiano: «Il mondo non ci somigliava e non lo volevamo. Non dico che i bambini di Favolacce che si uccidono siamo noi, ma siamo stati noi. Io più volte ho frequentato quel pensiero. Da bambino, solo da bambino. Tante volte io e mio fratello bambini abbiamo pensato a ipotesi di futuro dove non stavamo lì. Fortunatamente, arrendersi al fatto che il mondo sia quello non significa arrendersi con se stessi. Uno prova a dare un piccolo contributo. Io ci provo con il mio cane, la mia fidanzata, i miei amici, con le storie che scrivo».
Lei ha scritto una poesia al figlio che desidera. Pure Fabio è per la paternità, nonostante le famiglie disintegrate che raccontate?
Fabio: «Ho il desiderio di essere sorpreso da altro, di non essere più al centro dell’universo».
Damiano, lei ha raccontato il trauma d’aver temuto che Fabio bambino fosse travolto dalle onde: oggi, ha mai paura di perderlo?
Damiano: «Ce l’ho come durante la notte di perdere la donna che amo, o gli altri fratelli Mario e Francesca. Fortunatamente, i brutti pensieri accadono, come la pioggia, sempre più di rado, quando arrivi a un punto dell’esistenza in cui sai come proteggerti».