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 2022  febbraio 19 Sabato calendario

Intervista a Hanz Tucci


Mentre il governo del Papunà, dietro cui è facile vedere un noto Cavaliere, nel novembre del 1994 è in crisi, si preparano segrete mosse politiche per infangare l’opposizione. C’è il pericolo che un promettente politico venga accusato nuovamente per un omicidio irrisolto del 1986: la morte tragica di un’adolescente che faceva la baby sitter. L’ex vicequestore Norberto Melis viene allora incaricato di indagare in proprio sull’accaduto perché chiudendo il caso l’arma mediatica verrebbe neutralizzata. Si apre così Ma cos’è questo nulla?, ultimo romanzo del ciclo «Le indagini di Norberto Melis», pubblicato da Bollati Boringhieri, che lo scrittore Hans Tuzzi iniziò nel 2002. Melis parte allora verso un Nord-Est immaginario, per Brassanigo, capoluogo di provincia fatto di tradimenti, silenzi, interessi economici e ambigue sette esoteriche come quella di Ortilia. Un piccolo mondo dove il nulla del titolo prende corpo nella sete di «denaro, e successo, e potere» e dove l’indagine si svolge con i consueti ritmi e stile dell’autore milanese: colpi di scena, citazioni mai superflue e un gusto concreto per il dettaglio esatto.
Hans Tuzzi, pseudonimo di Adriano Bon tratto da un personaggio de L’uomo senza qualità di Robert Musil, settant’anni il prossimo ottobre, scrive l’addio al suo personaggio più noto in un giallo che alla scoperta del colpevole aggiunge ben altra sorpresa. In un’epoca dov’è raro abbandonare una formula che funziona, «la Lettura» ne parla con l’autore.
Tuzzi, è sicuro della sua scelta? È veramente l’ultima inchiesta di Melis?
«Ho sempre detto che Melis si sarebbe mosso tra due estremi: dal febbraio del 1978, poche settimane prima del sequestro di Aldo Moro, alla crisi agonica del primo governo Berlusconi verso la fine del 1994. Mi sono mantenuto fedele a questa scelta, al lettore valutare con quanti alti e bassi e con che media nella qualità dei libri. Parliamo di diciotto inchieste, distribuite in sedici titoli, pubblicati al ritmo di una ogni anno e mezzo. Dopo quel momento l’Italia di Melis finisce perché entriamo in una fase storica in cui un personaggio come lui è semplicemente estraneo».
Da autore, non le manca il suo eroe?
«Melis è vivo, magari per pochi e magari conoscerà un momento dove nessuno lo ricorderà, ma per ora è vivo e a me non manca. Se l’avessi tenuto forzosamente in vita, intendo vita letteraria, scrivendo oltre questa inchiesta, allora sì che l’avrei ammazzato come personaggio».
Perché era necessario chiudere con il suo protagonista?
«Uno scrittore vero sa quando fare uscire di scena un personaggio. Con scrittore vero intendo uno scrittore per il quale la scrittura è fine e non mezzo. Uno scrittore vero, come Georges Simenon, ambienta nel 1968 l’ultima inchiesta di Maigret e prende atto che il tempo di Maigret è finito. Il commissario è un uomo fra le due guerre mondiali, ancora degli anni Cinquanta, ma i suoi metodi di indagine non hanno più a che fare con quello che accade. Lo fa uscire di scena ed è per questo che Maigret è ancora vivo. Altri scrittori, come l’americano S. S. Van Dine, tengono vivi i loro personaggi oltre ogni liceità e dopo il terzo titolo il suo Philo Vance è già uno zombie saccente».
È la prima e unica volta che Melis non è più nella Polizia come vicequestore, indaga ma è in pensione. Come l’ha trattato in questi panni borghesi?
«Più che pensionato, preferirei usare altri termini: è la prima volta che Melis è solo ed è un uomo comune. Non ha più la divisa e il tesserino, che comunque conferiscono un ruolo e danno sicurezza, e si trova in una modalità nuova per lui. Senza la chiarezza di far parte di un apparato di Stato e senza ufficialità, da autore mi è piaciuto inventare questa situazione particolare per un personaggio che per lunghi anni è stato un alto funzionario».
Come mai l’ultima indagine si svolge a Brassanigo, cittadina immaginaria del Nord-Est, e non a Milano?
«Ho ambientato praticamente tutte le indagini di Melis a Milano, ma desideravo trattare una provincia che in quel momento dava luogo a fenomeni significativi nella politica italiana e che avrebbero avuto il loro peso negli anni successivi. Non mi ero mai misurato con il Nord-Est ed era l’ambientazione ideale. Aggiungo che inventarsi una città fantastica, studiarne la topografia – l’ho rappresentata precisissima in un mio disegno – e popolarla di personaggi che non sono macchiette, ma restituiscono un climax, un luogo e un periodo storico, mi ha divertito da matti».
Non mancano ombre di diverso tipo in quest’ultima indagine e Melis, al calare della sera, ha spesso paura del buio. È un caso?
«Serve a sottolineare ulteriormente come la sua vita sia ormai segnata dall’ombra e da un vuoto. È un’ombra ambivalente: mentale, di consapevolezza, ma anche legata a quella di certe strutture dello Stato e non a caso in un dialogo si parla di Mino Pecorelli, ucciso nel 1979 per il suo giornale politico “OP”. È un’ombra che si addensa e questa situazione è lo specchio concreto di una solitudine che va al di là dell’inchiesta. Ormai fa parte di lui. Nelle prime pagine, il suo ex questore e capo, “Sua Eccellenza”, pensa fra sé in modo cinico che Melis sia la persona adatta per il caso perché, come dice Sherazade ne Le mille e una notte, ha assaggiato la morte».
Lei ha sempre avuto presente l’arco temporale del ciclo del suo eroe, ma in vent’anni di scrittura le indagini come sono nate?
«Avevo già chiari gli estremi temporali, ma non il susseguirsi delle inchieste e un modello, i casi del giudice Dee dell’olandese Robert van Gulik. Alcune di queste non le avevo previste; altre erano situazioni che sapevo avrei narrato, ad esempio per La belva nel labirinto (2017). In quel caso mi sono ispirato a un episodio di cronaca, l’omicidio della sedicenne Olga Julia Calzoni nel 1976: quand’ero ragazzino uno dei due assassini era mio vicino di casa al lago. Giocavamo insieme in giardino e qualche anno dopo leggo che lui con un compagno di scuola aveva commesso uno dei più feroci, assurdi e idioti delitti uccidendola a martellate. L’avevano fatto per sentirsi super uomini. Fin dall’inizio del ciclo sapevo che ne avrei scritto».
La cronaca le è sempre stata utile?
«No, in alcune occasioni tutto è nato da un’immagine che mi si è fissata in testa crescendo per mesi fino a diventare un giallo. È il caso di Un enigma del passato (2013): vedevo queste tre sorelle che prendono il tè nel giardino di un’elegante villa di provincia e in quello di fianco, comunale, tagliano un albero e quando cade c’è uno scheletro umano all’interno».
Ha dichiarato diverse volte che il periodo delle indagini di Melis sono «gli anni in cui si svilisce la grammatica di una civiltà». Cosa è successo?
«Insieme all’acqua sporca degli anni di piombo abbiamo buttato anche il bambino; ma non era il bambino delle ideologie, era quello degli ideali, di una consapevolezza figlia degli anni Cinquanta dove l’impegno sociale conviveva con la leggerezza. C’erano tante contraddizioni, ma convivevano con un senso della società che gli anni Ottanta e Novanta hanno disfatto».
L’etichetta di scrittore di gialli non le è mai piaciuta, ha sempre preferito parlare di «romanzi con delitto». Dov’è la differenza?
«Rispetto quasi tutte le regole del romanzo giallo, ma ritengo che la scrittura abbia anche altre esigenze. Per cui non mi nego la divagazione e mi piace soffermarmi sui personaggi minori che creano l’humus necessaria di un ambiente romanzesco. Queste cose, per un lettore di gialli più attento alla trama, potrebbero infastidire, ma per me non sono una perdita di tempo».
Nel suo «Come scrivere un romanzo giallo o di altro colore» (2017) afferma che «non si scrive con le emozioni, ma nel ricordo delle emozioni!». Lei ambienta i suoi romanzi nel passato: perché?
«Le distanze temporali rispetto a quanto scrivo corrispondono a quelle di Balzac e Dickens, quei venticinque, trent’anni che consentono di rivedere un momento che è ancora vivo nella memoria, ma non abbastanza da generare problemi e che permette una presa di distanza critica. Così è stato, per me, nei confronti degli anni Ottanta. Li ho capiti quando erano passati. Avvertivo che l’Italia stava cambiando e che tutta una serie di cose – per la mia generazione punti di orientamento – venivano meno, ma non mi era così chiaro fino a quando non ho iniziato a scrivere la serie di Melis. Infine, quella frase è una parafrasi della bellissima definizione che dà della poesia Foscolo: “Calore di fiamma lontana”. Non scriviamo la pagina migliore sul nostro dolore mentre siamo ancora lì a piangerci sopra, ma quando tutto si è sedimentato».
Si è mai chiesto perché Melis sia meno popolare di altri eroi italiani dell’indagine?
«Mi sembra assolutamente naturale, Melis è un po’ di nicchia ed elitario. Ogni scrittore ha una sua idea platonica di lettore e quello che cerca conferme in un protagonista inamovibile, che ha sempre gli stessi collaboratori e che non fa carriera, non mi dice nulla. Quel tipo di romanzo che Furio Jesi scrivendo di Liala definiva: “Non un libro, ma un feticcio nel quale adagiarsi”. Ecco, il lettore che al posto di un libro vuole un paio di pantofole calde, a me non interessa».
Sta lavorando a un nuovo personaggio?
«No, per il momento sto scrivendo delle cose per mio diletto e ho trovato altri due inediti di Sandor Weltmann. Il suo Città di mare con nebbia (Skira, 2015), un romanzo gotico di cui ho curato l’edizione, ha destato un certo interesse. C’è chi sosterrà che sono falsi, ma mi sto divertendo a tradurli dal tedesco».
Che ne sarà del grande shaker d’argento avvolto da un «unghiuto drago della pioggia» tanto caro al vicequestore?
«Non me ne parli, quello è un dolore cocente. Non avendolo mai potuto avere io, mi sono detto: “Che ce l’abbia Melis”. Lo vidi nella realtà da un antiquario a Genova, a fine anni Ottanta, ma ero in partenza e non accettava assegni. Quando ci tornai mi precipitai a comprarlo, ma era stato venduto».
Se incontrasse Melis e potesse chiedergli di usarlo, che ultimo drink vi berreste?
«Sicuramente un Whiskey Sour, entrambi, il cocktail che preferisco seguito dal Margarita. Se non fosse l’ora adatta – ma quale ora non è adatta per un Whiskey Sour? – un bel Pernod. Stranamente in queste cose abbiamo gli stessi gusti. Non mi chieda perché».