La Lettura, 19 febbraio 2022
Come sono finite le inchieste dell’Anticorruzione degli ultimi anni
Il 2015 è, per certi versi, formidabile. A marzo di quell’anno la dipendente di un società televisiva che lavora per Rai e Presidenza del Consiglio realizzando eventi tv, Orietta Petra, si presenta in Procura e racconta come schermi e microfoni da pochi soldi vengano fatturati migliaia di euro per drenare risorse pubbliche. Secondo i magistrati romani si tratta di corruzione e il suo capo dell’epoca, David Biancifiori, viene iscritto sul registro degli indagati.
A Milano, in quei giorni, Andrea Franzoso, un ex capitano dei carabinieri divenuto addetto all’amministrazione delle Ferrovie Nord, trentottenne con l’idea di legalità cucita sul petto, fa due passi fino alla caserma più vicina e denuncia ai suoi ex colleghi la sparizione di centinaia di migliaia di euro dalla contabilità aziendale. Vengono chiamate «spese pazze» ma secondo i pm milanesi la follia c’entra poco: si tratta di peculato e il nome del presidente, Norberto Achille, finisce sui registri giudiziari.
Lo stesso anno, una tranquilla (forse pignola) funzionaria del Comune di Roma inizia le audizioni alla Finanza su una vicenda che finirà per sporcare l’immagine capitolina quanto le inesorabili buche cittadine o gli stanziali sacchetti di spazzatura nel cuore della capitale: la cosiddetta multopoli romana. Centinaia di migliaia di sanzioni cancellate ad amici e conoscenti. Uno scandalo che, per la Corte dei Conti, ha creato una voragine da 17 milioni di euro nelle casse comunali. Morale, il suo capo ufficio, Pasquale Pelusi, viene iscritto sul registro degli indagati per il reato di truffa e quello di falso.
Tre storie differenti di denuncia dall’interno (la parola whistleblowing, all’epoca, non è ancora di moda) alle quali due anni dopo se ne aggiungerà un’altra: l’esposto per l’acquisto da 263 milioni del palazzo della Provincia del costruttore Luca Parnasi da parte dell’allora presidente Nicola Zingaretti. La cifra è monstre e per garantire la compravendita viene costituito un fondo immobiliare nel quale confluiscono alcuni gioielli di famiglia come la caserma dei carabinieri di piazza San Lorenzo in Lucina nell’area monumentale della città, gestito dalle banche con qualche conflitto di interesse. Il costo pubblico per quell’operazione lieviterà all’infinito mentre l’edificio non verrà mai utilizzato. Entra allora in gioco, da segretario generale della Provincia, Serafina Buarné, che invia un esposto alla Procura e alla Corte dei Conti. La sua denuncia ha un doppio effetto. Da un lato apre un fronte con i vertici politici dell’epoca (Zingaretti è il governatore del Lazio), dall’altro inguaia funzionari e dirigenti che hanno contribuito a scavare la voragine nelle casse pubbliche (la Provincia è diventata parte della città metropolitana).
Risultato «minimalista»: nessuna iscrizione dei politici che siglarono l’affare con Parnasi ma solo di pochi funzionari pubblici e bancari accusati di truffa.
È il segnale, forse, che l’onda della riforma, intesa come lotta privilegiata alla corruzione sta per tramontare e all’orizzonte si profila una sorta di controriforma. Nessuna di queste inchieste avrà grande fortuna processuale. Non il caso delle tangenti di Biancifiori prescritto in buona parte nel filone che riguardava le tangenti versate alla Presidenza del Consiglio (l’altro, la corruzione Rai, tuttora in corso, andrà incontro probabilmente allo stesso destino: i fatti risalgono al 2012-2013). Non la vicenda delle Ferrovie Nord il cui peculato, in virtù di due autorevoli consulenze di parte (una dello studio Catricalà, l’altra di Valerio Onida), viene derubricato ad appropriazione indebita. Non la multopoli capitolina, lentamente avviata a una completa prescrizione avveratasi il 2 febbraio scorso. Tantomeno la tormentata inchiesta sull’acquisto del palazzo della Provincia che, con un vero colpo di spugna, dopo avere chiamato in causa lo stesso Zingaretti (come pure l’ex sindaca Virginia Raggi), è stata archiviata nel 2021 dalla procura regionale della Corte dei Conti e avviata a una pressoché totale archiviazione anche da parte della magistratura penale.
E loro? I testimoni della (in)giustizia? Il prezzo pagato per la loro disobbedienza al sistema non è stato risarcito da una sentenza significativa, è vero. Eppure nessuno sembra sgomento. Tutti o quasi hanno visto la propria vita deragliare verso nuovi lavori. Qualcuno ha vissuto problemi di salute (proporzionali all’enorme stress sostenuto? Chissà). Altri ne sono usciti più soli. Oggi Orietta Petra, per fare un esempio, è sotto scorta. Poco dopo il suo ingresso in Procura, trova un biglietto: «L’uccellino smetterà di cantare». Il 27 novembre dello stesso 2015 qualcuno le devasta l’appartamento. Giorni dopo un uomo le punta un coltello alla pancia mentre si trova alla stazione ferroviaria di Monterotondo. Costretta a dimettersi, cambierà lavoro. Eppure ecco il suo parere sull’intera vicenda: «Non posso che essere delusa dai tempi della giustizia – dice —. Ma rifarei daccapo quello che ho fatto. In più, dico io, la prescrizione non è un’assoluzione e trovo assurdo che molti imputati la vivano come tale. Il vero nodo è che lo Stato dovrebbe tutelarti fino in fondo. Allentare l’attenzione su un testimone una volta conclusa la stagione processuale può essere rischioso, siamo soggetti segnati a vita».
Come Petra, anche Franzoso ha perso il lavoro. Dopo un anno nel quale è stato parcheggiato in un ufficio aziendale senza una vera mission, a quarant’anni si è reinventato come scrittore di libri per ragazzi. Prima però ha fatto i conti con l’ostracismo dei colleghi e perfino l’angoscia del babbo, convinto che avrebbe fatto meglio a espatriare anziché denunciare perché, si sa, l’Italia è un Paese per corrotti: «Sebbene io sia consapevole di vivere nel paese di Sottosopra – dice il disobbediente Franzoso, dopo avere pubblicato un libro con Bur (Il disobbediente, appunto) – rifarei la stessa scelta di allora, quella di denunciare. Nonostante le mortificazioni e le difficoltà affrontate. Ma giuro che la mia vita è migliorata: non la cambierei con altre per nulla al mondo, men che meno con i “comfort” di chi denunciai».
Quanto a Emma Coli, la gola profonda della multopoli capitolina è stata prima mobbizzata e sanzionata (rimettendoci circa 13 mila euro di stipendi mai restituiti), poi allontanata e ignorata. A suo tempo ha dovuto intraprendere un percorso terapeutico per rielaborare le aggressioni subite e nessuno, dai vertici del Campidoglio, le ha mai detto grazie per avere scoperchiato quel vaso di illegalità e connivenze. La delusione per il colpo di spugna processuale, tuttavia, lascia il passo a considerazioni più intime: «Per fedeltà verso la mia storia personale, l’educazione e l’esempio ricevuto – dice – non sarei riuscita a fare diversamente. Quindi va bene così. Va detto però che le lungaggini processuali sono indegne di un Paese che onori la giustizia».
E Buarné? La dirigente della Provincia è stata a sua volta isolata dai colleghi che hanno ingaggiato le ostilità nei suoi confronti durante gli anni degli approfondimenti giudiziari. Gli ingressi in ufficio senza un saluto. I sotterfugi adottati per tenerla all’oscuro di tutto. L’irritazione dei vertici politici per avere portato alla luce fatti spiacevoli. Non stupisce perciò che abbia dovuto fronteggiare perfino problemi di salute. Attualmente è consulente dei sindaci di Bagheria e Villafrati per i beni confiscati.
Pessimista riguardo alla possibilità di sconfiggere la corruzione attraverso una rete di commi e rimandi giudiziari, tornata a Palermo dove vive, ha fondato un’associazione in memoria di Napoleone Colajanni, il politico che denunciò lo scandalo della Banca Romana e morì in povertà nella sua Enna. Dice oggi Buarné: «Esiste da sempre una norma poco conosciuta che obbliga un pubblico ufficiale a denunciare i reati dei quali venga a conoscenza. Questo anche senza le nuove leggi in materia di anticorruzione. Poi vogliamo dire che c’è l’etica? Ho pagato un prezzo in termini personali, di serenità e di sicurezza ma per quanto mi riguarda, lo rifarei daccapo. Mi ha amareggiato il silenzio di quelle persone che avrebbero dovuto denunciare assieme a me».
Così, tra ostinazione e puntiglio, il whistleblower – colui, appunto, che denuncia illeciti, reati o irregolarità dall’interno di un’istituzione o di un ufficio – cerca di guardare oltre il pessimismo della ragione.