Robinson, 19 febbraio 2022
Biografia di Rosi Braidotti raccontata da lei stessa
Ho l’impressione leggendo i libri di Rosi Braidotti che esista un femminismo che non intenta processi sommari né esibisce ostilità preconcette verso l’altra metà della terra. Un femminismo addolcito dalle numerose esperienze vissute e dai molti luoghi visitati, dalle tante storie che si sono incrociate nella sua vita e che Rosi chiama “femminismo nomade”. La parola “nomade” – soprattutto negli anni Ottanta – ha dato luogo a molti equivoci. Sembrava a un tratto che senza movimento (non importava in quale direzione) il pensiero si banalizzasse o inaridisse.
Avevamo i nostri “lari”. Chatwin per le esperienze letterarie, Deleuze per quelle filosofiche e ritenevamo che tutto questo bastasse per fornire credibilità ai pensosi atteggiamenti mobili. E quando mi sono imbattuto nuovamente nella parola “nomade” sono stato avvinto dalla noia. Poi però ho letto la storia di Rosi (raccontata nel suo ultimo libro Fuori sede, pubblicato da Castelvecchi) e credo di capire quanta sostanza ci fosse in quell’aggettivo, quanto coinvolgimento e sofferenza rivelasse il suo apparire. Perché era la sua stessa vita che si era fatta nomade. Non un concetto, una moda tardiva, bensì qualcosa che interpellava la sua identità.
Lei usa in un’accezione personale la parola nomade.
«Sono stata un’emigrante che a quindici anni è partita con i genitori per l’Australia; aver vissuto lì a lungo mi ha fatto capire sulla mia pelle cosa significhi essere una straniera non interamente integrata. Diventare “nomade” è stata una conquista successiva: mentale e culturale. Non avendo più una patria le avevo virtualmente tutte; potevo andare ovunque, imparare lingue diverse e sentirmi padrona del mio destino».
Immagino che essere strappati dalle proprie radici per lei non sia stato facile.
«Non lo è stato. Le mie radici sono nel Friuli, dove sono nata conservando ricordi bellissimi. Andarsene a una età nella quale i sogni più ambiziosi accompagnano la crescita è stata dura».
Perché i suoi genitori decisero di emigrare?
«Provengo da una famiglia un tempo agiata. Poi il dissesto economico ha spinto mio padre a questa scelta.
Partimmo nel 1970. Dopo un interminabile viaggio per nave sull’Achille Lauro, sbarcammo a Melbourne. Ho conservato a lungo la valigia di cuoio marrone in cui misi tutte le cose importanti».
Come fu l’impatto?
«Nei primi anni pesante. Studiavo e al contempo lavoravo, svolgendo piccole mansioni in fabbrica. Ero anche abile. Poi vinsi borse di studio che mi hanno permesso di arrivare con tranquillità alla prima laurea, che presi all’università di Canberra. In quel periodo iniziai a collaborare a dei periodici femministi. Poi, ancora grazie all’offerta di un’importante borsa di studio, si presentò l’occasione di trasferirmi a Parigi. C’erano due persone che mi interessavano particolarmente: Michel Foucault, di cui un vecchio zio sacerdote mi aveva parlato la prima volta quando ancora ero in Italia, e Luce Irigaray, la pensatrice belga di cui avevo letto Speculum. Giunsi a Parigi nel 1978 per un dottorato alla Sorbona e lì, in quella città, ho trascorso anni importanti. Durante i quali il femminismo è stato la bussola che ha in larga parte orientato il mio pensiero».
In rottura o in continuità con l’esperienza australiana?
«La Francia fornì il terreno fertile su cui crebbero le mie convinzioni filosofiche. A Canberra avevo svolto una tesi su Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir. Poi c’era stato lo strutturalismo che aveva scalzato quelle autorevoli figure dell’esistenzialismo; alla fine, come un tuono, arrivò il post-strutturalismo che ai miei occhi rappresentò l’occasione per ridefinire il mio paesaggio interiore».
Quando dice “post-strutturalismo” pensa a figure come Foucault, Lacan, Derrida, Lyotard?
«Certamente a loro che, pur nella diversità delle posizioni, hanno posto al centro della riflessione la “crisi del soggetto”. Tutti costoro erano più o meno consapevoli che per ripensare il rapporto del soggetto con il mondo occorresse mettere in discussione la tradizione di un umanesimo razionale e universale. Fu Luce Irigaray a notare impietosamente che dietro l’Uomo, inteso come simbolo dell’umanesimo classico, si nascondeva il maschio della specie».
Un maschio con quali caratteristiche?
«L’identità tipica del “lui” era di presentarsi bianco, europeo, normodotato, possibilmente bello e sulla cui sessualità non ci fossero dubbi».
Il post-strutturalismo ripensa dunque questa immagine?
«Ne coglie, più in generale, il limite smascherando l’illusione di onnipotenza dell’umanesimo che pose l’uomo europeo, o meglio occidentale, a fondamento della morale e a motore dell’evoluzione umana».
E il femminismo eredita questa critica?
«Il femminismo è una galassia che ha sviluppato al suo interno posizioni molto diverse. In Francia, il femminismo fa propria la visione anti-umanista. Ma credo anche che la teoria e la pratica femminista abbiano lavorato più velocemente ed efficacemente di molti movimenti sociali degli anni Settanta e di tante teorie post-strutturaliste. E questo grazie allo sviluppo di strumenti originali e di metodi di analisi che hanno permesso di capire meglio come funziona il potere».
Una figura che ritiene fondamentale per il suo sviluppo è Gilles Deleuze. Perché gli attribuisce così tanta importanza?
«Perché è il filosofo che più di ogni altro mi ha insegnato a pensare in modo diverso».
Cosa vuol dire?
«Serve più creatività concettuale e maggior coraggio intellettuale per affrontare le sfide e gli orrori della nostra epoca. Deleuze fu per me una buona scuola.
Grazie a lui, tra l’altro, ho compreso l’importanza di Spinoza, un filosofo che nella vita fabbricava lenti. Oggi forse sarebbe un programmatore di computer».
Magari un rider o un disoccupato. In fondo fu quasi sempre messo ai margini.
«Toglierei il quasi. Ancora oggi pesa la scomunica su di lui».
Era un pensatore così pericoloso?
«È stato il grande teorico della democrazia radicale. Per Deleuze, Spinoza non ha una visione identitaria della soggettività. Non costruisce sistemi di potere riconducibili alla sovranità dell’Io. È un materialista che pone con forza la continuità tra natura e cultura. Il suo pensiero oggi è imprescindibile per chiunque si occupi di ecologia. Ma lo sarebbe anche per le femministe che gli hanno preferito altri percorsi filosofici. Peccato perché anche lui fu uno sconfitto dalla storia».
Da chi in particolare?
«Nel Seicento sul piano filosofico vince il dualismo cartesiano. Prevale così l’opposizione mente-corpo, materia-spirito, Occidente contro tutto il resto del mondo. Dietro a una tale visione moderna c’è il riflesso di un’Europa bellicosa, egemonica, “maschile” che si espande prepotentemente».
Non è il suo un modo di violare la purezza del pensare filosofico?
«Sarà anche così, ma da qualche parte la filosofia ha le proprie ricadute. Spinoza è molto più aperto e radicale della élite che ha dominato la filosofia negli ultimi tre secoli».
Lei ha da poco pubblicato, per DeriveApprodi, due volumi sul “postumano”. È questo il suo ultimo approdo filosofico?
«In un certo senso corona la mia lunga ricerca. Quello che vorrei fosse chiaro è che non considero il postumano l’ennesimo tentativo di giocare sul prefisso “post” o l’ennesima moda filosofica».
Forse ha solo soppiantato il postmoderno.
«Sono due cose diverse anche se entrambe scaturiscono dalla grande crisi dell’umanesimo. Ma il postmoderno, cui riconosco l’aver giocato un ruolo importante, è finito nel relativismo. Il fatto che la nozione di “uomo” sia antiquata non significa abbandonare del tutto questo essere, ma provare a collocarlo dentro un contesto nuovo e drammaticamente attuale».
Post-umano come descrizione di una catastrofe possibile o imminente?
«A prima vista la condizione post-umana può apparire catastrofica. In realtà il postumano come ipotesi teorica è uno strumento che ci consente di analizzare tre grandi mutazioni in corso. La prima innescata dagli sviluppi tecnologici per cui dobbiamo chiederci in che misura siamo sempre più simili a dei robot, la quarta rivoluzione industriale fa convergere tecnologie avanzate quali robotica, intelligenza artificiale, nanotecnologia, biotecnologia e Internet delle cose; la seconda operata dal cambiamento climatico, che ci obbliga a chiederci quale potrebbe essere il punto di non ritorno della vita umana sul pianeta, in altre parole riusciremo a sopravvivere o ci estingueremo? Infine la potente accelerazione del capitalismo ci pone di fronte al problema se possiamo permetterci questo tipo di globalizzazione. Questioni molto complesse e urgenti, lo riconosco. Non è facile sentirsi a casa nel XXI secolo. Ho pubblicato lo scorso anno un terzo libro sul postumano e il femminismo, ancora non uscito in Italia, dove affronto le teorie radicali dei femminismi».
Queste teorie hanno spesso incrociato la psicoanalisi. Che rapporto ha con essa?
«Per come la vedo io, la psicoanalisi è una filosofia del desiderio e al tempo stesso una teoria nella quale il femminile può uscirne arricchito. Mi ha aiutato a liberarmi da certi dualismi e a ridimensionare il ruolo del pensiero astratto».
È stato un aiuto solo teorico?
«Qualcosa di più coinvolgente, dovuta alle contraddizioni e alle lacerazioni relative al mio vissuto di donna, intellettuale, emigrante, esule e femminista.
C’era una regola alla Sorbona: se volevi occuparti di desiderio e di pulsioni dovevi sottoporti a un po’ di analisi. L’ho fatta mettendo in gioco me stessa, le mie strutture profonde. Per sette anni, dal 1981 al 1988, tre volte a settimana, ho preso sul serio l’analisi, affidandomi a una donna che aveva una grande esperienza clinica.
Oltretutto parlavamo in lingua francese».
È soddisfatta del risultato?
«La psicoanalisi mi ha liberata dalla condizione psicologica di emigrante. Quando prima si parlava del passaggio al nomadismo, ecco questo è stato il momento vero della crescita e della trasformazione. È significativo per me che l’analisi sia finita nel momento in cui ho scelto di vivere una grande storia d’amore con un’altra donna».
Nel suo libro “Fuori sede” lei accenna all’importanza di questa storia con Anneke, che è coincisa con la decisione di andare a vivere a Utrecht.
«A 33 anni ho vinto la cattedra di Women’s Studies all’università di Utrecht. Sono seguiti anni straordinariamente fecondi per il lavoro sulle donne.
Insieme ad alcune colleghe ho creato un dipartimento nuovo, dove poter realizzare corsi pilota sulla storia delle idee femministe, la storia delle donne, la letteratura al femminile e molto altro. Quanto alla presenza di Anneke era ed è fondamentale. Ci siamo sposate l’8 marzo del 1999: il giorno delle donne, alla fine di un secolo problematico che annunciava il nuovo. Qualche tempo fa abbiamo deciso di fare testamento».
Siete tutto sommato ancora giovani. Perché?
«Forse perché attorno a noi vedevamo amici ammalarsi e alcuni morire. Abbiamo pensato che fosse giusto lasciare il nostro patrimonio a una fondazione che sarà gestita dall’università di Utrecht e che servirà ad agevolare le ragazze che faranno ricerca. È stato un modo per me di fare pace con la morte, con quello che a un certo punto fatalmente accadrà».
In fondo quella decisione è una sorta di prolungamento della vita. Come lo sono i “diari” che lei da anni scrive.
«Tengo un diario dall’età di undici anni. Tra le cose che scrivo, il diario è la forma più preziosa per me. Nella solitudine e nell’incertezza che ho spesso provato, il diario ha rappresentato un generatore di vita consapevole. Una volta scritti i libri sono “creature” indipendenti, vanno nel mondo e in mezzo alla gente. Il diario è una scrittura privata, un luogo di completa solitudine che mi dà fiducia e sicurezza. Non so perché è iniziato, forse leggendo il Diario di Anne Frank. Poi è diventata una forma di dipendenza. Un modo diverso per meditare su di me e su ciò che il mondo mi offre».