Robinson, 19 febbraio 2022
Intervista a Miguel Falomir, direttore del Prado
Al Prado, nei prossimi mesi, vedremo Annibale Carracci, un nuovo Caravaggio, Picasso e artisti contemporanei. Ma di crypto arte non se ne parla. Almeno finché alla guida del primo museo spagnolo – 3 milioni di visitatori all’anno – ci sarà Miguel Falomir. Nato a Valencia nel 1966, questo compassato e tenace esperto di Lorenzo Lotto, festeggia 25 anni vissuti nel tempio di Velázquez e Goya, prima da curatore e poi (da cinque) come direttore. «Che gli NFT siano arte o meno a me sembra irrilevante. Il punto è che non mi interessano – dice – Non sono così naïf da non sapere che l’arte sia anche un business. Ma con gli NFT, francamente, finora si è visto solo l’aspetto speculativo». Insomma, tra un file venduto a caro prezzo e Las Meninas si apprezza ancora qualche differenza.
Direttore Falomir, qual è la missione di un museo nel XXI secolo?
«Continuo a credere che la missione di un museo consista nel preservare un’eredità artistica, accrescerla se può, mostrarla nelle migliori condizioni e trasmetterla al pubblico, facendo attenzione alle trasformazioni sociali. In risposta a questi cambiamenti, negli ultimi decenni, i musei hanno assunto un ruolo più attivo, incorporando funzioni che prima non avevano, come quelle educative e sociali. Direi che questa dimensione sociale è quello che più distingue i musei del XXI secolo da quelli del XX».
Ma c’è un modello da seguire?
«È difficile parlare di modelli. Ogni museo è radicato in una determinata società e ha caratteristiche che lo rendono unico. In un momento di allarmante omologazione, quando tutto ovunque si assomiglia sempre più (l’urbanistica, la cucina, la moda…), i musei che mi interessano sono quelli che vantano una personalità forte… e il Prado ce l’ha».
Vedremo mai un Prado in Cina o negli Emirati, come è accaduto per il Louvre?
«Rispetto le decisioni degli altri, ma il Prado non aprirà sedi all’estero. È difficile per me pensarlo fuori dalla Spagna così come immaginare gli Uffizi lontano dall’Italia. Se ne sono aperti tanti di “musei franchising”, ma quasi tutti sono stati un fallimento: pochi hanno raggiunto i 20 anni di attività. Questo perché per la maggior parte non si trattava di musei, ma di sale da esposizione».
La pandemia ha cambiato i templi dell’arte?
«Relativamente poco. Ha accelerato processi che erano già in corso, come il rapporto con il digitale e la riduzione delle mostre cosiddette “blockbuster”. I veri cambiamenti non sono dettati da fattori sanitari, ma da mutazioni ideologiche e sociali. Mi riferisco alla crescente necessità di rendere visibile il ruolo della donna nella storia dell’arte, alla messa in discussione dei valori occidentali e della relazione tra l’Europa e le sue ex colonie. Ma anche alla presa di coscienza che viviamo sempre più in società eterogenee da un punto di vista razziale, culturale e religioso. Il pubblico è cambiato e dobbiamo sapere ascoltarlo».
A proposito di digitale, che relazione deve esserci tra i musei e i social network? Il Prado è molto attivo su Tik Tok.
«È una relazione necessaria come con i mezzi tradizionali. I social sono una forma di comunicazione: quella preferita da un’ampia fetta della società, in particolare i giovanissimi.
Non si tratta di strumenti buoni o cattivi in sé, dipende dall’uso che se ne fa. Il Prado sta dimostrando che Tik Tok può essere utile per diffondere i contenuti del museo, senza banalizzare il messaggio».
In Spagna il Prado è stato accusato di un nuovo interesse verso il contemporaneo. In particolare, a causa delle mostre in preparazione su Pablo Picasso e Philippe Parreno.
Il Reina Sofía deve preoccuparsi?
«È un’accusa che genera perplessità.
Forse siamo il museo di “Old Masters” che intrattiene la relazione più timida con l’arte contemporanea, non per mancanza di interesse, ma per i problemi che ci vengono posti. Il Louvre, gli Uffizi e la National Gallery di Londra lavorano con artisti vivi senza che nessuno si scandalizzi. Il Kunsthistorisches di Vienna da anni ha un curatore per l’arte contemporanea. E il Prado, invece, viene criticato per aver programmato una piccola mostra su El Greco e Picasso – una relazione che costituisce un luogo comune nella storia dell’arte – e per aver deciso di mostrare un’opera di Parreno sulle Pinturas negras di Goya che, come tutti sanno, si conservano al Prado!
Questo non è un museo d’arte contemporanea, ce ne sono di eccellenti a Madrid come il Reina Sofía, ma si sta interessando – direi che è obbligato a farlo – a quegli artisti che considerano importante il Prado e la tradizione pittorica che rappresenta. Queste critiche rivelano la paura di un approccio trasversale all’arte contemporanea. Anche uno studioso di arte antica ha molte cose da dire su Picasso. Non migliori o peggiori, ma diverse».
Come definirebbe una cattiva mostra?
«Un’esposizione che non porta nulla di nuovo e che di conseguenza sottopone le opere a un rischio non necessario, sprecando i mezzi finanziari di un’istituzione».
E la sua mostra dei desideri?
«Quest’anno abbiamo in programma un’esposizione con il Museo di Capodimonte sull’arte a Napoli all’inizio del XVI secolo e l’attività degli artisti spagnoli. Risponde bene al modello di mostre che mi piace: un tema importante poco trattato che contiene indagine e restauro insieme e che approfondisce la conoscenza della storia dell’arte in collaborazione con un altro importante museo europeo».
Quale sarà il destino dell’Ecce Homo di Caravaggio scoperto in una casa d’aste a Madrid lo scorso anno e ora vincolato dallo Stato spagnolo?
Il Prado proverà a comprarlo?
«L’Ecce Homo è un dipinto interessante. Numerosi specialisti si sono manifestati a favore dell’attribuzione a Caravaggio, ma occorrono ancora prove tecniche e nuovi dati utili per approfondire l’opera. È chiaro che, se l’autografia venisse confermata, qualsiasi museo del mondo cercherebbe di aggiudicarselo, compreso il Prado.
Ma la cosa importante è che il quadro resterà in Spagna, dove arrivò più di 300 anni fa».
C’è un’opera al Prado che guarda spesso con particolare emozione?
«Alcuni dipinti amati da giovane continuano a esercitare su di me lo stesso fascino, se non di più: il Ritratto equestre di Carlo V di Tiziano, le Filatrici di Velázquez… ma la scelta dipende da molti fattori, compreso lo stato d’animo del momento. Se sei depresso, non puoi accostarti alle Pinturas negras di Goya».
Se potesse rubare un’opera da un altro museo, quale sceglierebbe?
«Molte! Più che opere, direi artisti che amo e che non sono rappresentati al Prado. Solo tra gli italiani mi vengono in mente Piero della Francesca, Rosso Fiorentino, Pontormo…».