Robinson, 19 febbraio 2022
La paura che ci salva la vita
La paura fa novanta. E da molto prima che gli uomini imparassero a contare. E inventassero il gioco del lotto. Secondo filosofi come Thomas Hobbes è lei la grande levatrice della storia, quella che ha fatto nascere le istituzioni umane. Soprattutto quelle politiche. Che mettono fine a quella lotta senza quartiere di tutti contro tutti che trasforma le origini dell’umanità in un teatro di guerra. In una lotta fra predatori feroci e prede in balia del terrore. La pensa così anche Daniel T. Blumstein, direttore dell’Evolutionary Medicine Program dell’Università della California di Los Angeles e autore di Paura. Lezioni di sopravvivenza dalla natura selvaggia, appena tradotto da Serena Placidi per Raffaello Cortina.
Blumstein, che è una star dell’etologia, famoso per i suoi studi sulle marmotte, sostiene l’utilità della paura. Che ha insegnato ai nostri antenati ad essere cauti, a fiutare i pericoli a evitarli e a elaborare strategie di sopravvivenza. Consegnandoci un’eredità evolutiva affinata in milioni di anni di brividi. Da oltre un trentennio, Blumstein studia le risposte degli animali al pericolo. E sulla base delle sue ricerche è giunto ad affermare che la paura per milioni di anni ha tenuto in vita i nostri antenati umani e non umani. È vero, infatti, che le nostre paure non sono più quelle elementari dei nostri progenitori preistorici. Subire un furto d’immagine o l’hackeraggio dei nostri dati sensibili non è come essere azzannati da un tirannosauro. O come vedersi sottrarre il cibo e le risorse necessarie alla sussistenza. Eppure, di fronte allo spavento i nostri contemporanei impiegano gli stessi meccanismi fisiologici e psicologici che 250 milioni di anni fa assicuravano la salvezza ai nostri antenati. In fondo, che si tratti di un’aggressione fisica o di un’opa ostile, di una lotta tra scimpanzé per il dominio sul branco, o della guerra politico-finanziaria tra gruppi economici, alla fine resta sempre la paura di perdere, se non la vita, almeno la posizione sociale e la capacità di accesso alle risorse necessarie alla sopravvivenza propria e del proprio gruppo.
Apparentemente siamo lontani dai comportamenti di fuga delle marmotte e delle antilopi, o delle strategie di attacco dei leoni o degli squali, ma l’evoluzione lavora sempre con quello che ha, non crea ex novo. Come diceva Elias Canetti, nulla al mondo si evolve e si trasforma meno della paura. Non a caso quando siamo spaventati da qualcuno o da qualcosa, le nostre risposte neuroendocrine, sudore, peli ritti, occhi sbarrati, respirazione affannosa, ipersalivazione, pallore e tremore, sono più o meno le stesse da duecento milioni di anni a questa parte. Perché il kit di sostanze chimiche e di risposte allo stress che abbiamo in dotazione è ancora quello che abbiamo ricevuto in eredità dai primati. Ma anche da altre specie che ci hanno trasmesso i dispositivi difensivi e offensivi di base che noi adattiamo alla nostra epoca e alle situazioni della nostra vita. Api, pangolini, canguri, iene, serpenti, roditori, pavoni, pinguini, termiti, iguane, macachi, bonobo, gatti.
A proposito se al lavoro il vostro capo vi tormenta, vi opprime, vi molesta, dategli pure della cornacchia. E sarete scientificamente nel vero. Perché il mobbing lo hanno inventato questi rumorosi pennuti, insieme ad altre specie animali, per difendersi dagli assalitori assordandoli, molestandoli, facendo rumore. E la parola fu usata per la prima volta dal Premio Nobel Konrad Lorenz.
Ma anche lo svenimento causato dallo spavento, dallo stress, dall’emozione è la versione umana della cosiddetta brachicardia da paura. L’abbiamo ereditata dai pesci che riducono quasi a zero il battito cardiaco per sfuggire agli squali che posseggono speciali rilevatori delle pulsazioni. Insomma, per capire fino in fondo i nostri timori dobbiamo interrogare le nostre radici evolutive. Perché di fronte alla paura, bipedi o quadrupedi, siamo tutti sulla stessa barca, o meglio sulla stessa Arca.
Anche se le differenze ci sono ed è utile conoscerle per imparare a convivere con i nostri fantasmi, con i nostri spaventi. Intanto noi umani le paure le comunichiamo, le raccontiamo, le sublimiamo, le condividiamo. Fabbrichiamo antidoti etici, politici, pedagogici. E proprio osservando le risposte animali possiamo imparare a adottare comportamenti più vantaggiosi. Sia per noi che per i nostri fratelli non umani la paura salva la vita, ma un eccesso di paura paralizza. Oltre ad avere un impatto devastante sulla salute, sulla produttività, sulla felicità. Come dire che il fight and flight ( combatti o scappa), è un’alternativa troppo secca per un’umanità sempre più interconnessa e complessa come la nostra. Che a fronte di numerose ragioni di allarme individuale e sociale produce fattori di rassicurazione ancor più numerosi. Primo tra tutti la solidarietà. Che abbatte i costi psicologici, sociali ed economici di un allarme perenne. Insomma, per dirla con Massimo Troisi, fra un giorno da leone e cento da pecora, meglio cinquanta da orsacchiotto.