Robinson, 19 febbraio 2022
Il processo del Bataclan raccontato da Carrère
N1. Il fondo del fondo on si vedeva un’affluenza del genere dalla deposizione di François Hollande. È il secondo interrogatorio di Salah Abdeslam, unico sopravvissuto del commando del 13 novembre e in quanto tale grande vedette del processo. È lontano il tempo in cui si scommetteva se avrebbe parlato o meno, visto che era rimasto in silenzio per tutta l’istruttoria. Non solo parla, ma sembra contento di parlare, contento di essere ascoltato, contento di attirare così tanta gente. La camicia bianca è ben stirata, ha l’aria in forma, l’interrogatorio durerà più di sette ore. Educato e cortese nel complesso, ha delle punte di insolenza, senza cattiveria. Il presidente del tribunale cita una lettera a sua madre dove scrive che anche se suo fratello Brahim si è fatto saltare in aria e lui no, sono tutti e due dei martiri. Abdeslam lo interrompe: «Non è il momento di parlare di questo, perché là si va a fondo della questione, per non dire il fondo del fondo. Non metto in discussione le sue capacità intellettuali, signor presidente, ma non bisogna avere troppa fretta». Sorriso del presidente, più divertito che offeso. Questo fondo del fondo non dà l’impressione di essere particolarmente profondo. Nessun abisso dostoevskiano da cui promana il fetore dell’inferno. Quello che colpisce è semmai la leggerezza, l’inconsistenza, l’incongruenza di questo ragazzo che ha partecipato al massacro di 131 persone ma che tutti descrivono come gentile, e forse lo è davvero. Bisogna quindi dare ragione al suo primo avvocato, il belga Sven Mary, che sosteneva che aveva il cervello di un posacenere vuoto? Non penso. Mi fiderei semmai dei suoi due psichiatri, Daniel Zagury e Bernard Ballivet, che nella loro perizia dicono che non è pazzo, neanche un po’, e non è nemmeno stupido. Uno sventato, semmai, invischiato nelle sue contraddizioni: un musulmano rigorista ma al tempo stesso un festaiolo, un fanatico ma attaccato alla sua piccola vita tranquilla, un terrorista codardo, uno che assicura di aver prestato giuramento allo Stato islamico quarantott’ore prima degli attentati, e poi dopo gli attentati, e poi di nuovo prima: si finisce per perdersi, e probabilmente ci si perde anche lui.
2. La terza versione
Tutte le cose che dice hanno scarso peso, ma qualcosa che assomiglia a una linea di difesa ce l’ha. Si regge su due punti. Primo: non ho ucciso nessuno, non ho ferito nessuno, non c’è sangue sulle mie mani. È vero, e vale anche per tutti gli altri imputati, visto che quelli che hanno ucciso sono tutti morti. Secondo: «Capisco che la giustizia voglia dare degli esempi. Ma allora se un individuo è nella metro con una valigia con 50 chili di esplosivo e all’ultimo momento decide di fare marcia indietro, che cosa si dirà? Si dirà che comunque non glielo perdoneremo, che sarà rinchiuso e umiliato come me, e allora che cosa farà?». Per dirla in altre parole: se non c’è nessun premio per il pentimento in extremis, tutti si faranno saltare in aria. L’argomento è scioccante, ma non è assurdo. Se una persona che non ha ucciso si becca la stessa condanna, cioè il massimo, di una che ha ucciso, la vaga sensazione che ci sia qualcosa che non va c’è. È sufficiente perché Salah Abdeslam abbia qualche possibilità di prendere meno, qualcosina in meno, dell’ergastolo a cui tutti lo destinano? È questa minuscola possibilità che spiega il suo passaggio dall’immagine di ombroso combattente dello Stato islamico che ha rivendicato all’inizio del processo a quella di diavoletto immaturo che vediamo oggi nella gabbia degli imputati? Tra l’orgoglio e la prudenza, tanto vale scegliere l’orgoglio, se sei sicuro di non avere nulla da perdere. Ma se non sei sicuro? Se c’è una piccola via d’uscita? È dall’inizio del processo che tutti si pongono questa domanda: se Salah Abdeslam non ha azionato la sua cintura come previsto è stato perché 1) non ha funzionato o 2) perché ha avuto paura? Nella prima versione i jihadisti lo possono perdonare, nella seconda tutti gli altri lo possono compatire. Ma ecco che a un certo punto dell’interrogatorio, senza preavviso, senza neanche che gli venga chiesto di ripetere, perché è tardi, lui lascia cadere lì una terza versione: vedendo ai tavolini dei ristoranti tutte quelle persone della sua età, che assomigliavano a lui, che come lui si erano messi la camicia migliore e un po’ di profumo dietro le orecchie, ha provato per loro una profonda empatia e ha rinunciato al suo progetto. In questa terza versione, non è se stesso, ma gli altri che avrebbe risparmiato. È impossibile da verificare, ma come strategia di difesa si può tentare.
3. Il viaggio in macchina
Nell’agosto del 2015 Salah Abdeslam andò in Grecia con il suo amico Ahmed Dahmani, detto Gégé, che proprio per via di quelle sventurate vacanze compare di fronte a questo tribunale. Perché erano delle vacanze, dice Salah, e bisogna veramente essere prevenuti per immaginarsi qualcos’altro. Chemla e Rimailho, avvocati di parte civile, sono prevenuti. Pensano che quel viaggio fosse una ricognizione del tragitto che avrebbe seguito il commando, due mesi più tardi, tra la Siria e il Belgio. A sostegno di questa ipotesi riprendono, ora per ora, il tracciamento del cellulare di Dahmani ( visto che quello di Abdeslam, guarda caso, era spento dalla partenza): 30 luglio, 16: 13: noleggio dell’auto a Bruxelles; 31 luglio, 02: 45: partenza da Bruxelles; 08:45: controllo doganale vicino a Basilea; 15:22: arrivo a Firenze; 1° agosto, 19: 30: imbarco sul traghetto a Bari; 2 agosto, 13: 30: arrivo a Patrasso; 4 agosto, 18:00: partenza da Patrasso; 5 agosto, 09:30: arrivo a Bari; 6 agosto: 01:25: frontiera svizzera; 08:30: ritorno a Bruxelles. L’effetto di questa lettura è al tempo stesso comico e schiacciante. Che senso ha questo viaggio lampo in cui non ci si lascia il tempo per vedere nulla? Abdeslam: «Avevamo un po’ di tempo, un po’ di soldi, abbiamo fatto un viaggio in macchina, lo Stato islamico non c’entra nulla». «Ma che cosa avete fatto? Quando vi fermavate, che cosa facevate?». «Mangiavamo pasta, andavamo sulle isole». «Quali isole?». «Non mi ricordo i nomi». «Però», dice il presidente, «due giorni di viaggio in una direzione e poi nell’altra per restare soltanto due giorni sul posto è un po’ strano…». «Era meglio che niente. Lei ha sicuramente i mezzi per pagarsi delle vacanze più lussuose, signor presidente, ma noi no». Se riporto questo piccolo scambio di battute è perché è un perfetto esempio dei costanti cambiamenti di visuale nel corso di un processo. Quando ascolto le parti civili, mi sembra evidente che quel viaggio puzza: la gita in macchina, ma non prendiamoci in giro. Arriva il turno della difesa. Che cosa dice Olivia Ronen, l’avvocata di Abdeslam? Innanzitutto che non è quello il percorso che hanno seguito i terroristi, secondo poi che due ragazzi che attraversano l’Europa a tavoletta fumandosi una canna dietro l’altra, con la musica a palla, senza mai fermarsi, solo per divertirsi, è possibile ed è sbagliato concludere che avessero necessariamente mire funeste solo perché passando da Firenze non hanno visitato gli Uffizi. Ascoltandola penso: sì, è possibile. O meglio, non del tutto impossibile. Come non è del tutto impossibile che Abdeslam all’ultimo secondo abbia rinunciato a farsi saltare in aria per altruismo. ( Ma un istante dopo penso: se fosse così, perché non averlo detto prima?)
4. Il libro per intero?
Per quanto sia sprovvisto di gravità, in entrambi i significati della parola, Salah Abdeslam ha tuttavia pronunciato, all’inizio del processo, una frase che è passata abbastanza inosservata, ma a cui ripenso spesso. «Tutto quello che voi dite su di noi, i jihadisti, è come se leggeste l’ultima pagina di un libro. Invece bisognerebbe leggere il libro per intero». Non so da dove abbia tirato fuori un’immagine così forte, ma a tutt’oggi è una delle due risposte che mi sono rimaste impresse alla domanda che viene posta regolarmente: che cosa vi aspettate da questo processo? L’altra è stata pronunciata da un sopravvissuto del Bataclan, Pierre-Sylvain: «Mi aspetto che quello che ci è successo diventi una narrazione collettiva». Comporre una narrazione collettiva, leggere il libro per intero sono due ambizioni smisurate. Forse irrealizzabili. Ma siamo qui per questo.
( Traduzione di Fabio Galimberti)