Robinson, 19 febbraio 2022
Hugo, l’uomo che trasformò Notre-Dame
Il romanzo pubblicato dall’autore francese nel 1831 trasformò il capolavoro dell’architettura gotica in un luogo simbolo che va oltre Parigi
Una sintesi del mondo e dei suoi caratteri
Comincerei dal titolo, Notre- Dame de Paris, perché raramente, come in questo caso, il titolo racchiude l’opera. La cattedrale di Parigi non è solo il principale teatro degli eventi e della loro tremenda conclusione, è tra i protagonisti del romanzo. Lo dichiarò lo stesso Hugo nella prefazione all’edizione definitiva ( 1832): «Ispiriamo, se possibile, alla nazione l’amore per l’architettura nazionale. Tale, lo dichiara l’autore, è uno dei principali scopi del presente libro». Romanzo storico, ma anche racconto e difesa di un passato di cui la cattedrale è simbolo. Da bravo romantico, Hugo lo preferiva per molti aspetti al presente.
Una famosa scena è quella, visionaria e notturna, in cui l’arcidiacono Claude Frollo ammonisce che la carta, cioè la stampa, ucciderà la cattedrale, cioè la religiosità: «L’arcidiacono considerò per qualche tempo in silenzio il gigantesco edificio, quindi tese con un sospiro la destra verso il libro stampato aperto sul tavolo, la sinistra verso Notre- Dame, e volgendo tristemente lo sguardo dal libro alla chiesa: “Ahimè – disse – questo ucciderà quella”».
Se consideriamo gli attuali strumenti elettronici come un potenziamento di quella che era allora la “carta”, in quelle parole si può vedere una profezia. Romanzo storico, dunque. Nei primi decenni del XIX secolo, i lavori dello scrittore scozzese Walter Scott ( Ivanhoe, 1819) facevano scuola. Anche il nostro Manzoni vi gettò un occhio. Anzi, se vogliamo dirla tutta, nell’eventuale confronto tra Notre-Dame e I promessi sposi, nessun dubbio su quale tra i due sia il racconto più equilibrato e meglio scandito anche per quanto riguarda verosimiglianza e approfondimento dei personaggi. È stato calcolato che in Hugo la sola esposizione delle premesse occupa un terzo dell’intera opera, pagine e pagine dove abbondano brani da antologia e digressioni geniali ma che poco hanno a che fare con la storia.
Victor Hugo, del resto, era molto più giovane del nostro don Lisander, anche se aveva già messo a soqquadro la scena francese con il suo Hernani quando di anni ne aveva solo 25. Quando cominciò a scrivere Notre-Dame (il 25 luglio 1830) di anni ne aveva appena qualcuno in più: 28.
Dell’accesa teatralità di Hernani ( diventerà infatti un’opera di Verdi), il romanzo riprende toni, situazioni e in molti casi una scrittura che nettamente si rifà alla prosa colorita dei romanzi d’appendice: «L’arcidiacono cacciò un terribile grido, come il miserabile cui venga applicato un ferro rovente. – Muori, dunque! – disse digrignando i denti». Sembra di leggere Le tigri di Mompracem.
Wolfgang Goethe, da quel rigoroso classicista che era, aveva colto che la debolezza del romanzo stava proprio nella fissità di ruolo dei personaggi: «Non uomini in carne e ossa ma burattini di legno».
Nemmeno l’eroina Esmeralda è una vera fanciulla in carne e ossa, piuttosto un’apparizione affascinante, un sogno «una forma inafferrabile velata dalla rapidità del volo» – una libellula, la chiama Hugo.
Nel cerchio intorno a lei s’intreccia una triplice rivalità: l’arcidiacono Frollo, il gobbo Quasimodo, lo svagato poeta Gringoire. Più o meno lo stesso terzetto che già figurava in Hernani come incarnazione del grottesco, del demoniaco, del sognatore.
Dei tre, il personaggio che forse ha qualche tratto di maggiore autenticità è proprio l’arcidiacono nella sua torbida attrazione repressa per Esmeralda. La scena in cui egli spia da una fessura le effusioni amorose tra la leggiadra zingarella e il capitano Phoebus è di un realismo che non può non aver attinto all’esperienza diretta. Sappiamo che i rifiuti di sua moglie votavano spesso Hugo ad una castità quasi sacerdotale.
«Il capitano, reso ardito dalla dolcezza di lei, prese a slacciare pian pianino il corsetto della povera ragazza ne allargò talmente la scollatura che il prete ansimante vide uscire dal tessuto lieve la spalla nuda della zingara». Oppure: «Quel prete dalla pelle bruna e dalle spalle larghe, condannato fino a quel giorno alla austera verginità del chiostro, rabbrividiva e ribolliva davanti a quella scena d’amore, di notte e di voluttà».
Anche la figura del re Luigi XI, ( padre di quel Carlo VIII che porterà in Italia la rovina) è messa quasi in caricatura. La sua reazione quando viene informato che la cattedrale è presa d’assedio dai rivoltosi è resa grottesca dalla stupida crudeltà di cui dà prova. E dire che Luigi XI è invece passato alla storia come “Le Prudent”: «Ah, signor popolaccio di Parigi, vorresti rovesciare la corona di Francia, la santità di Notre- Dame, la pace di questo stato! Stermina, Tristan, stermina! E non ne scampi nemmeno uno».
Co- protagonista e vero eroe della vicenda, è il mostruoso Quasimodo: «Una grossa testa irta di capelli rossi; tra le spalle, una gobba enorme il cui contraccolpo si faceva sentire davanti; un sistema di cosce e di gambe contorte così stranamente che solo al punto del ginocchio potevano toccarsi». Reso sordo dal rimbombo delle campane che deve far suonare, guercio d’un occhio, Quasimodo, così battezzato dal suo protettore, a dispetto della sua mostruosità esteriore è un uomo di grandi sentimenti e ha, nonostante tutto «Un certo aspetto terribile di vigoria, di agilità e di coraggio». Toccherà a lui rimettere in equilibrio il senso della vicenda dopo la morte dell’innocente Esmeralda, togliendo di mezzo l’infelice e malvagio arciprete.
L’aspetto del romanzo dove l’autore dispiega diretta partecipazione più che nei colpi di teatro e nelle concitate scene da melodramma è nella fascinazione sincera che dimostra per Parigi. Hugo era salito spesso in cima alle torri della cattedrale per ammirare il gioco delle luci sulla città che amava. Ne fa partecipi i suoi personaggi: «Contemplò per un istante, attraverso la grata di colonnine sottili che unisce le due torri, attraverso un velo di nebbia e di fumo, la folla silenziosa dei tetti di Parigi, aguzzi, innumerevoli, fitti e piccoli come le onde di un mare tranquillo in una notte d’estate». Oppure: «Un’abbagliante confusione di tetti, di camini, di strade, di ponti, di piazze, di guglie, di campanili... Lo sguardo si perdeva allungo a tutti i livelli di quel labirinto».
Portare Notre- Dame a teatro è un’impresa sicuramente possibile, forse meritoria. Ci si chiede però quali sacrifici comporti ridurre a puro melodramma le cento sfumature di questo precoce capolavoro, i suoi eccessi, le geniali digressioni, la dismisura, la capacità così tipicamente romantica di mettere a confronto con il grottesco, il sublime.