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 2022  febbraio 19 Sabato calendario

Intervista a Riccardo Cocciante


A vent’anni dalla prima italiana e alla vigilia del nuovo debutto, l’autore ritiratosi a Dublino racconta come è nato lo spettacolo musicale diventato un successo mondiale. Tutto cominciò con una canzone: “Belle”
C’è qualcosa che non riesci ad afferrare quando guardi e ascolti Notre Dame de Paris. Questa sensazione non la puoi definire perché non è razionale e te ne accorgi solo perché, anche se non volevi, anche se non ci credevi, è come se, a un certo punto, ti trovassi proiettato dentro lo spettacolo. Puoi forse arrivare a capire che cos’è questa cosa che ti trasporta se guardi Riccardo Cocciante che canta. Magari le primissime esibizioni, Bella senz’anima o, naturalmente, Margherita: solo un pianoforte e la voce, una cascata di capelli ricci, gli occhi chiusi, un’atmosfera che diventa sempre più calda, più intensa. Frammenti di un discorso amoroso. Gioia, rabbia, sesso, tormento. In una parola: emozioni. Una forza universale che a un certo punto, quando Riccardo Cocciante ha deciso di fare qualcosa di diverso da un normale disco, si è riversata in Notre Dame, dando origine a un fenomeno che festeggia vent’anni il 3 marzo al Teatro degli Arcimboldi di Milano con l’intero cast originale del debutto in italiano avvenuto il 14 marzo 2002 al Gran Teatro di Roma, costruito per l’occasione dal visionario impresario David Zard. Da allora 1346 repliche del solo show italiano e 5400 in 20 paesi, tradotto in nove lingue diverse per 13 milioni di spettatori. Un miracolo.
Lei è italiano da parte di padre e francese da parte di madre. Dove vive di più, in Italia o in Francia?
«Sono vent’anni che vivo a Dublino».
Come mai alla fine ha scelto un paese anglosassone?
«È una scelta dovuta a un fatto artistico: quando stavo pensando a come arrangiare Notre Dame mi è capitato di ascoltare Riverdance, un disco bellissimo, di un compositore che si chiama Bill Whelan. Ho preso un appuntamento con lui in Irlanda e da lì è nato il mio amore per questo paese, molto diverso dall’Inghilterra. Il carattere degli irlandesi è eccezionale: sono gioviali, ti aiutano sempre, insomma c’è un’atmosfera bellissima.
Inoltre io non voglio vivere in un paese dove sono conosciuto. Questo per recuperare me stesso e curare la mia identità di uomo più che di artista e non farmi prendere dall’ansia di quello che comporta il fatto di essere conosciuti perché è una cosa che può trasformare un uomo, il suo modo di pensare, di comportarsi, di divertirsi. E fargli perdere l’ispirazione. Quindi è stata una scelta: restare comunque in Europa ma un po’ fuori».
Come è nato Notre Dame de Paris?
«Conoscevo e lavoravo da tempo con Luc Plamondon che è l’autore dei testi originali francesi. Un giorno mi ha proposto di fare qualcosa su Notre-Dame de Paris di Victor Hugo. All’inizio ero un po’ titubante e ho detto di no perché pensavo di non essere capace: è una storia talmente bella quella di Hugo che temevo che il paragone potesse essere impietoso. Però mentre lavoravo mettendo giù delle melodie questa idea mi coinvolgeva sempre di più e sono venuti fuori una decina di pezzi che sarebbero diventati i più importanti di Notre Dame»
Quale fu il primo?
«Fu proprio Belle (uscita nel 1998 in Francia rimase in classifica per 60 settimane, diventando il singolo più venduto degli anni 90 e il terzo di tutti i tempi e nel 2001 in un sondaggio ufficiale risultò la canzone più amata dai francesi degli ultimi 15 anni, ndr): quando Luc ascoltò quelle prime quattro righe che avevo composto ci fu un lungo silenzio in cui ci guardammo in faccia. Alla fine disse “Wow! Vale davvero la pena lavorare su questo progetto!”. Fu una febbre di composizione assoluta. Io sapevo di essere capace di comporre delle canzoni ma quello è un fatto, cantare un altro, e realizzare un’opera intera con una storia con un legame che collega tutte le sue parti era un’altra cosa ancora. Con il tempo però, ripensandoci, mi sono accorto che invece nel mio passato c’era già qualcosa di simile: ho passato la mia infanzia ascoltando opere classiche con i miei genitori prima a Saigon e poi a Roma e il mio primo disco, Mu, era quello che si chiama un “concept album”».
Che cos’è Notre Dame de Paris? So che lei non ama che si usi il termine “musical” per definirlo…
«Fin dall’inizio avevamo chiaro che non volevamo fare né una commedia musicale né un’opera classica ma piuttosto un’opera di oggi. Io ci tengo a chiamarla “opera popolare”. La differenza principale è che in quei casi ci sono dei parlati mentre noi li abbiamo evitati».
Perché non semplicemente “opera”?
«No, l’opera è quella di Puccini, di Verdi e io non voglio neanche lontanamente paragonarmi a questi grandi autori, però oso utilizzare questo termine perché è un termine tecnico che indica cosa si fa. Io ho voluto staccarmi dall’idea anglosassone del musical che è rispettabilissima, proprio per recuperare la mia identità di europeo, di italiano e francese. Dentro infatti ci sono moltissime melodie che non hanno assolutamente la caratteristica del musical: c’è un’altra maniera di comporre, di arrangiare e anche di scegliere i personaggi che qui sono cantanti e non attori. Non ci sono arie ma canzoni. Insomma siamo andati contro tutte le regole».
Anche il processo creativo è al contrario rispetto all’opera: siete partiti prima dalla musica, non dal testo.
«Esatto, tutto è partito dalla musica perché Plamondon, così come Mogol e tanti altri autori, ha bisogno della musica per potersi esprimere con le parole».
A proposito, che tipo è Plamondon?
«Beh lui è un po’ la mia totale antitesi: io sono molto riservato mentre lui ama parlare, farsi vedere… Però è molto bravo, riesce a sembrare semplice senza in realtà esserlo e ha un piede nel domani. Ed è proprio questa combinazione, questo urto tra noi che secondo me ha funzionato: io amo i contrasti. Ma non scontati».
È vero che la versione italiana la voleva assolutamente fare Pasquale Panella?
«Sì, e mi ha stupito. Ha fatto un testo di grande stile e qualità. Quasi un secondo originale per quanto è bello».
Notre Dame è sorprendente anche per la sua modernità: penso alla “Corte dei miracoli” dove nel testo francese si dice “la prostituta danza con il mendicante” e in quello italiano “briganti danzanti con i mendicanti/ non abbiamo bandiere né fedi”. O ancora all’episodio intitolato “I clandestini”…
«Luc Plamandon ha usato scientemente il termine “sans papier”, un termine che non esisteva al tempo di Hugo e anche alcune formule del linguaggio sono attuali. Oggi, vivere, se non si è omologati, è ancora più difficile di ieri. È un tema raffigurato in maniera potente dalla figura di Quasimodo ma anche da Esmeralda, donna e zingara che incarna la forza dell’eros ma anche dal prete che da questa forza si sente soggiogato e reagisce con violenza. E anche quello di Febo, il cavaliere, che vorrebbe avere due donne ma è costretto a scegliere. E poi c’è il popolo dei clochard, delle prostitute, degli emarginati in genere».
Non ci sono stati attacchi dalla politica visto che si tratta, appunto, di temi molto caldi?
«Solo un episodio a una prima: quando la “Corte dei miracoli” ha cantato “Libertà!” un politico se n’è andato».
Ha più volte dichiarato che il personaggio di Quasimodo le è particolarmente caro, come mai?
«Sì è vero, lo amo molto perché in parte mi posso riconoscere in lui. All’inizio della mia carriera sentivo forte il senso di una mia diversità, non solo perché cantavo in modo molto differente da tutti gli altri ma anche perché per l’epoca non ero considerato, tra virgolette “fisicamente presentabile” ( ride)».
Davvero?
«All’inizio io mi mettevo al pianoforte chiudevo gli occhi e suonavo. Era un modo per rifugiarmi dentro di me e comunque di nascondermi. Essere uno showman non è mai stata una cosa che mi è appartenuta. Il mio modo di esserlo era usare la forza delle emozioni ma il mio modo di esprimermi era così speciale, così intimo, così interiore che mi ha fatto sentire diverso. Quello che mi piace di Quasimodo dunque, è proprio questo suo mondo interiore molto ricco, molto potente. Non deve niente all’esteriorità, al fisico. Al contrario di Febo, il cavaliere, che è bello e di cui sono tutte innamorate. Per i belli forse le cose all’inizio sono più facili ma più si va avanti, più ci si rende conto di quanto l’esteriorità sia poco importante».