la Repubblica, 19 febbraio 2022
Intervista a Pau
Formidabili quegli anni: cadute le ideologie, ci si esponeva petto nudo al vento della novità, del futuro tutto da scrivere. Il terzo millennio che si avvicinava prometteva di tutto e di più. Sorvolando su quanto poco abbia poi mantenuto, a trent’anni di distanza si possono analizzare gli anni Novanta anche nel loro aspetto artistico: il fiorire di band nuove, rock e non solo, come Almamegretta, Timoria, Africa Unite, Modena City Ramblers, La Crus, Marlene Kuntz. E i Negrita, protagonisti stasera della prima puntata di My generation, una serie di dieci documentari che per altrettanti sabati alle 20.15 su Sky Arte racconteranno quella folata di energia musicale che cambiò l’Italia.
Pau, frontman dei Negrita, che anni erano quelli?
«Di innovazione, c’era un fermento artistico che poi raramente si è ritrovato, abbiamo prodotto una generazione creativa trasversale, lasciando un grande segno che resiste tuttora per chi ha voglia di andarselo a cercare. Fummo una vera innovazione, che soppiantò la generazione precedente».
Ossia quella dei cantautori?
«Certo. Ovviamente i grandi resistettero, e per fortuna, ma il
mainstream diventammo noi. E non fu facile».
Che difficoltà incontraste?
«Beh, anzitutto godevamo nel non manifestarci troppo, apparire ci sembrava sinonimo di svendita. E pensi alla differenza con l’oggi, con gli sbarbatelli che partono subito con tutti i media più importanti già schierati, per non dire ovviamente dei social dove fanno a gara a chi posta più messaggi, foto, polemiche, provocazioni. Noi decisamente no».
E lo rimpiange?
«Scherza? Proprio no. Gli anni Novanta sono stati un decennio fondamentale, in cui abbiamo aperto la strada a un circuito di distribuzione nuovo, e a un nuovo giornalismo musicale. In generale, come tutti i ragazzi, volevamo cambiare il mondo, e il nostro mondo era l’Italia e la sua cultura musicale».
Che cultura era?
«Cantautorale, appunto, melodica.
Noi avevamo l’idea del tuffarci nelle altre tradizioni di Europa e Occidente. Il rock, anzitutto, è ovvio, ma anche con incursioni nel Secondo e nel Terzo mondo. Pensi agli Africa Unite con lo ska giamaicano, o a noi stessi. Giusto quest’anno ricorre il 25° anniversario di XXX, il disco che ci lanciò davvero. Prima avevamo fatto funky blues con Negrita e Il paradiso degli illusi su modello degli Alice in Chains. In XXX il funky andò via e ci fu un rock tradizionale, molto influenzato da certo sound emiliano, penso a Vasco e Zucchero, però registrato a New Orleans. Ma non dimenticherei che la vera rivoluzione nostra e degli altri fu che eravamo delle band».
Ed è così importante?
«Sì, perché si rinnegava la cultura del solista, che non è solo artistica, ma anche umana. Stando assieme volevamo dire anche che si guardava all’altro non con diffidenza ma con amicizia. Dopodiché certo potevano esserci casini all’interno del gruppo, il marcio c’era dappertutto, ma in qualche modo si andava avanti».
Di voi si parla anche per la registrazione “Mtv unplugged”.
Andata così bene che esce ora in una nuova versione che comprende anche “Sympathy for the devil” dei Rolling Stones con Manuel Agnelli.
«L’abbiamo registrata a luglio scorso nella nostra Arezzo. E il casino è stato quello: migliaia di telefonate di chi chiedeva un ingresso, pressioni, prove continue. Sul palco ero allucinato, forse si vede. Però le regole Covid ci sono venute comode: noi dovevamo star fermi, il pubblico seduto non poteva fare casino e ballare. Quanto a Manuel, aveva in mente due o tre cover, poi ha detto “al diavolo, se non faccio gli Stones con voi, con chi dovrei?”».
Sta scrivendo qualcosa?
«Dal primo lockdown no: siamo abituati a raccontare la realtà e siamo stati schiacciati dalla pesantezza del momento. Siamo arrivati a un’età mentale e anagrafica che ci permette uno stop. Ognuno di noi ha trovato passioni alternative: io dipingo sono stato a Luccacomics, mi preparo a una collettiva con Banksy e tvboy.
Abbiamo tempo per capire chi siamo, per vivere e pensare meglio i prossimi dischi».
Una domanda su Sanremo ci sta.
Trionfa il modello che mescola indie e nomi affermati. Voi foste tra i primi ad andarci, con gran scandalo, nel 2003.
«Sa, adesso scavarsi una carriera underground è un fallimento, allora era il contrario, i fan ti saltavano addosso se andavi a Sanremo, ora è una medaglia. Ma per tornare al discorso sugli anni Novanta, allora andavo alla casa discografica a prendere gli scatoloni delle lettere dei fan con le buste affrancate per rispondere. È cambiato il mondo».